La Trilogia Delle Vixen di Russ Meyer

La Trilogia Delle Vixen di Russ Meyer
La Trilogia Delle Vixen di Russ Meyer

Dal 1968 ed il 1971 Russ Meyer crea e definisce la sua trilogia delle Vixen - letteralmente femmine volpi - con un buon riscontro al botteghino, pilastro fondante e costitutivo dell'immaginario cinematografico meyeriano, un filotto di titoli iconici e fortemente rappresentativi alla sua "Arte" (sempre che siate d'accordo a definirla tale). Inutile dire quanto le pellicole di questo regista (comprese anche le varie Lorna, Mudhoney, Motorpsycho, Faster, Pussycat! Kill! Kill!, Up!, etc.) abbiano entusiasmato ed influenzato la frangia più trasgressiva ed alternativa dei registi per molto decenni, in primis ovviamente Quentin Tarantino. Non che prima di Vixen Meyer venisse da un cinema di grane sobrietà, eleganza e misura, ma certamente a partire da questa pellicola rimarca ancora più nettamente linee e contorni del proprio cinema, la sua "anti-ideologia ideologica". La cifra è surreale, grottesca, spinta al limite in ogni direzione: erotismo, violenza, dissacrazione, exploitation, persino comicità.I colori sono pulp e cartooneschi. In Supervixens lo sono letteralmente, nel senso che il sangue anziché essere rosso è variopinto, giallo, verde, azzurro, (per i neri, anzi "negri", è bianco). Nonostante ci sia un minimo comune denominatore, dettato dal protagonismo delle amazzoni (tutte rigorosamente con il seno grossissimo), protagonismo tanto come attrici quanto come scaturigine delle vicende alle quali assistiamo, c'è una evoluzione piuttosto forte da pellicola a pellicola.

Vixen cade nel 1968, anno che più fragoroso non poteva essere per un film del genere. Dei tre è il più bilanciato tra contenuto e forma (beh... forme!). Per quanto la filosofia "femminista" di Meyer venga già tutta dispiegata qui, e sia per altro la naturale conseguenza delle precedenti pellicole del regista californiano, trovano ampio spazio anche altre tematiche. Meyer affronta di petto (...) il tema della segregazione razziale, del Comunismo, parzialmente anche l'antimilitarismo, oltre ovviamente al perbenismo bigotto e ipocrita. Qualcuno ha scritto che tali argomenti sono artificiosamente iniettati nel film per giustificare 70 minuti di sesso e nudità, ma a ben vedere non è affatto così. Tutto si tiene nella furia iconoclasta di Meyer, ogni cosa fa parte dell'attacco a testa bassa al moralismo esibito e mal praticato dagli americani. Erica Gavin/Vixen è una donna dionisiaca, fortemente individualista, per niente afflitta da sensi di colpa, devota al marito ma anche alle sue pulsioni, tenendo in piedi contemporaneamente questo e quelle. Senza alcun rimorso si dedica all'adulterio, all'amore saffico, a quello incestuoso (con il fratello) e per poco non sfiora pure quello interraziale (va tenuto a mente che siamo nel '68). Il personaggio di Harrison Page è affatto banale, un nero pacifista scappato in Canada dagli States per non essere mandato in Vietnam a servire da militare una patria che lo discrimina quotidianamente. Lotta per i suoi diritti e la propria affermazione, non si lascia intortare neppure dal Comunismo, smascherandolo subito come un altro modo per essere accalappiato ed asservito. Meyer urla forte e chiaro il suo sogno americano, fatto di individualismo sfrenato, con o senza l'avallo altrui. Il diavolo poi risiede nei dettagli, come ad esempio il fratello di Vixen, Jon Evans, il quale indossa sul giubbotto di jeans una toppa con l'aquila del Terzo Reich ed una svastica, e che tuttavia è amico di un "negro" al quale cerca in tutti i modi di far provare i piaceri della carne della sorella Erica Gavin. Meyer svacca tutto, lo disseziona e lo ricompone a proprio piacere sotto l'unica bandiera possibile, quella dell'anarchia, del piacere elevato a potenza in quanto tale, della smitizzazione, dell'abbattimento di ogni barriera.

Vixen incassò moltissimo, dette "lustro" al nome di Meyer ma solo in determinati ambienti sufficientemente aperti (venne proiettato per 54 settimane consecutive in un drive-in dell'Illinois, un record assoluto), perché per il resto scatenò una persecuzione, anche giudiziaria, contro di lui. Vennero arrestati i proiezionisti che lo proiettavano nelle proprie sale, fioccarono multe e petizioni per proibirlo (a Cincinnati tutt'oggi non si può), a Chicago gli spettatori in sala venivano fotografati e schedati. Oggi fa ridere ma è andata così. Il New York Times ne parò come di un film "malato" e "lascivo" (sostanzialmente due complimenti). Per niente scoraggiato dalla patente di distruttore di ogni taboo, Meyer replica nel '75 con Supervixens. Rispetto ad 8 anni prima, il tono grottesco, ironico ed erotico prende il sopravvento, smussando la sottolineatura dei contenuti semanticamente più forti. Pure il montaggio inizia ad urlare e frazionarsi. La storia è quella di un povero Cristo (Charles Pitts) accusato dell'omicidio (efferato per altro) della moglie ninfomane (Shari Eubank), uccisione in realtà commessa da un poliziotto paranoico (Charles Napier) che era accorso a sedare la furibonda lite tra i due coniugi. Pitts è costretto alla latitanza e si spinge oltre confine. Qui colleziona una serie di incontri sbagliati, costellati da vixen agguerritissime e sessualmente indistruttibili. Per colpa loro passa da un guaio all'altro fino a che, stremato, fa tappa in una sperduta stazione di servizio gestita da un'angelo che è esattamente l'incarnazione della Eurbank, ma stavolta dolcissima e premurosa. Viene nuovamente raggiunto da Napier e tra i due avviene la resa dei conti. Molto più violento ed esplicito rispetto al suo predecessore, Supervixens spinge decisamente il pedale sull'acceleratore. Le femmine virago si moltiplicano esponenzialmente ed appare sempre più chiaro ed evidente come i maschi che cadono sotto le loro grinfie siano carne da macello votata al sacrificio e alla disperazione.

In questo vale davvero la pena di accostare il nostro Tinto Brass a Russ Meyer, entrambi convinti assertori della supremazia delle donne (anzi delle femmine) sugli uomini. A pensarci bene, le analogie tra le forme, le azioni ed il pensiero delle donne di Brass con quelle di Meyer sono tantissime. Non solo entrambi hanno guardato con occhi smitizzante e divertito la società del proprio tempo, descrivendola con toni grotteschi e surreali, non solo nei confronti di entrambi certa critica si è rivolta con assoluta miopia, facendosi totalmente abbagliare dalla mera abbondanza di nudità e forme burrose, senza concedere ai cineasti una profondità maggiore, ma tanto nei film di Brass che in quelli di Meyer è la donna a condurre il gioco, è la donna il vero "sesso forte", nonostante l'uomo si illuda dell'esatto contrario. Il paradosso femminista diventa quindi quello secondo il quale il loro cinema è cinema di liberazione e riscatto della donna, sebbene le rispettive protagoniste vengano circondate in sceneggiatura da luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi da disinnescare. Alfred Hitchcock richiese una copia del film per una proiezione privata. "Troppo.... per un solo film", mai slogan pubblicitario fu più adeguato. Saturare tutto il saturabile era la parola d'ordine di Meyer ai tempi di Supervixens ed è esattamente ciò che avvenne, moltiplicando quello che fu Vixen nel 1968 per 7 (il numero della attrici impiegate al posto di una sola super donna, solitamente protagonista dei suoi film, per una media finale di una nuova vixen ogni 10 minuti, tutte con il nome preceduto da "super"). Il sesso occupa ogni momento del racconto, abbiano genitali maschili e femminili in primo piano, senza filtri, i personaggi si fanno sempre più macchiettistici, anche se la "volgarità" viene sposata ad un'ironia di fondo che permette di leggere tra le righe e cogliere spirito critico, disincanto e sottigliezza, naturalmente disciolti in un mare di autocompiacimento e voglia di puro divertimento e spensieratezza ludica. A partire da Supervixens Meyer fa ricorso a momenti quasi onirici all'interno del racconto, spesso dei raccordi tra scena e scena o rapidissimi flash, apparentemente slegati dal contesto ma che agiscono a livello subliminale e stordiscono ancora di più lo spettatore, come le attrici fanno con il pubblico a colpi di prodezze sessuali.

Infine nel 1979 Beneath The Valley Of The Ultra-Vixens - da noi arrivato anche come Ultra Vixens - Tutti Gli Uomini di Lola Langusta - chiude la serie delle vixen, nonché la carriera cinematografica di Meyer, essendo il suo ultimo film. Cosa ci si doveva aspettare se non una ulteriore moltiplicazione di sesso, sangue, violenza bizzarrie non-sense, situazioni borderline e - ovviamente - tette? Come quelle di Anne Marie, predicatrice evengelica assai sui generis la cui silhouette è un ossimoro sguaiatissimo se messa in relazione alla professione. A mio parere Ultra-Vixens è persino più divertente di Supervixens, i personaggi che circondano le fameliche donne sono i più caricaturali di sempre (il tizio del camion dei rifiuti pare Brian Johnson degli AC/DC). Siamo nel fumetto conclamato, tutto è surreale, o iperreale se preferite. Le espressioni facciali, gli stessi amplessi (per velocità e numero di posizioni) sono oltre i limiti del parossismo. Kitten Natividad/Lola Langusta fa l'amore come un cartone animato, velocizzata a 78 giri. C'è talmente tanta abbondanza che i corpi aggrovigliati diventano vera e propria parte integrante della scenografia, venendo impiegati come quinte per esaltare l'azione di altri personaggi (si veda il rapporto saffico tra Kitten Natividad e Sharon Hill che fa da sfondo al dentista gay che rovista in uno sgabuzzino in cerca di un attrezzo che possa sfondare la porta dietro cui è nascosto Ken Kerr) Meyer non attacca più nessuno, si limita ad offrire una cronaca rassegnata e sgangherata della sua "America oggi", fatta di terre di frontiera ancora minacciose ed ostili, con le loro vallate, le loro cime montuose, i deserti, il chilometraggio sterminato, il sole battente, i serpenti velenosi. Un'America di provincia e baracche, arretrata, bigotta e facilona, popolata da individui anarcoidi, alienati e morbosi (tutti afflitti dalle proprie rispettive parafilie sessuali), e scarnificata dalle imprese di ingorde donne dalla libido senza fondo, dai seni letteralmente enormi, incontenibili, inappagabili. Un tripudio di eccesso, sfrenatezza e gozzoviglia. Un panorama che abbonda di scenari naturali nei quali vige sempre e comunque la legge della selezione naturale darwiniana, e noi sappiamo già quali specie e quali forme prediliga Madre Natura, Meyer non ne fa alcun mistero. Le musiche gettano benzina sul fuoco, assommando canti nazisti, inni sacri e squilli di dixieland. Il film si conclude con il preannuncio del nuovo futuro capitolo riguardante le vixen, intitolato Jaws Of The Vixen!, che purtroppo non vedrà mai la luce.

Trailer ufficiale



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