La Muerte y la Doncella è un dramma teatrale scritto da Ariel Dorfman che debutta al Royal Court Theatre di Londra nel 1991, vincendo il Laurence Olivier Award come migliore nuova opera teatrale. Tre anni dopo Roman Polanski ne trae l'omonima pellicola, rispettando quasi alla lettera il testo teatrale. Davvero poche le variazioni, la più significativa è naturalmente nel finale più esplicito e decisamente meno ambiguo rispetto a quello pensato da Dorfman; per il resto si tratta di piccole licenze poetiche che Polanski deve aver adottato ritenendole più confacenti al mezzo cinematografico rispetto a quello teatrale (seppur con il supporto dello stesso Dorfman che ha collaborato all'adattamento). Ad esempio il ritorno del Dr. Miranda (Ben Kingsley) a casa dell'avvocato Escobar (Stuart Wilson) per riportargli la ruota di scorta della macchina rimasta nel proprio bagagliaio. E' in quella occasione che Paulina (Sigourney Weaver) riconosce "il dottore", masticando amaro nel sentire la sua voce, le sue parole, i suoi modi di dire, persino il suo odore. Paulina è una sopravvissuta alle torture del regime politico dittatoriale che fino a qualche tempo prima imperversava nel paese (un'imprecisata nazione del sud America, fatalmente riconoscibile come il Cile, non fosse altro perché Dorfman è cileno). Oggi vive con il compagno Gerardo (pure lui ex oppositore rivoluzionario) un avvocato incaricato dal nuovo Presidente di guidare una commissione d'inchiesta sulle malefatte del vecchio regime. Paulina porta ancora sul corpo ma soprattutto nell'anima i segni delle violenze subite e tornare ad imbattersi in quello che lei ritiene uno dei suoi aguzzini fa emergere un passato terribile e, di fatto, mai realmente elaborato. La donna imbastisce così un processo sommario in casa propria, sequestrando Miranda (che si proclama innocente ed estraneo ad ogni addebito), tra lo stupore del marito ed una bufera temporalesca che trasforma l'isolata casa sulla scogliera in un vero e proprio carcere fuori dal tempo e dallo spazio. Escobar, non del tutto convinto della lucidità di Paulina, cerca di ricondurla alla ragione, anche assumendo la parvenza di una difesa d'ufficio di Miranda, ma Paulina si muove su di un sottilissimo filo di rasoio tra follia, vendetta, dolore e sete di giustizia. L'accordo viene trovato nella misura in cui Miranda renderà una confessione delle torture inflitte a Paulina e a tutte le prigioniere come lei, detenute, violentate e abusate in ogni modo (Paulina non risparmia le dettagliata descrizione dei fatti).
Nell'opera di Dorfman Miranda accetta di deporre una confessione, che tuttavia ricalca esattamente ciò che Paulina vuole sentirsi dire. Lo spettatore lascia il teatro senza sapere a chi dover credere, se Miranda sia davvero colpevole (anche senza prove) o se Paulina sia accecata dal bisogno fisiologico di trovare un capro espiatorio. La condizione dello spettatore è la stessa di Escobar, stretto tra due fuochi, ed in qualche misura Dorfman pensa ai tre personaggi del suo dramma come ad altrettante incarnazioni dello spirito della nazione, la sintesi di tre anime suddivise tra abominio, vittime e civiltà giuridica chiamata a frapporsi tra i due poli opposti. Polanski risolve il conflitto e non è affatto difficile immaginare in che direzione. - SPOILER: anche in questo caso Miranda scrive una confessione fasulla, ma Paulina non la accetta, trovandovi troppe imbeccature derivanti dalla difesa di Escobar. Conduce quindi Miranda su di un precipizio a picco sull'Oceano e minaccia di gettarlo di sotto. Solo a quel punto Miranda vuota il sacco, dimostrandosi per altro affatto pentito e persino nostalgico di quel periodo di onnipotenza. Come promesso, ottenuto lo scopo Paulina lo libera. Nell'ultima scena del film, i tre si ritrovano a teatro, Miranda con la propria famiglia e Paulina insieme a Gerardo, durante un concerto; si tratta de La Morte e La Fanciulla di Schubert (quartetto n. 14), una musica molto amata da Miranda che era solito metterla durante gli stupri delle prigioniere. Paulina da allora non riesce più ad ascoltarla senza tremare, mentre Miranda ne gode estaticamente. Tutto è cambiato, eppure vittima e carnefice siedono a pochi metri di distanza senza che alcuna giustizia si sia realmente compiuta.
La Morte E La Fanciulla arriva subito dopo Luna Di Fiele, del quale pare mantenere ancora scorie e reminiscenze, ed è in tutto e per tutto un film tipicamente polanskiano. Sebbene il soggetto sia estraneo, Polanski se ne appropria, lo metabolizza e lo plasma rendendolo assolutamente omogeneo alla propria poetica. C'è il tipico cappio che si stringe intorno al collo dei personaggi, braccati, minacciati, catapultati abrupto in una situazione imprevista, nera e più grande di loro. C'è la claustrofobia, la parafilia, il senso di morte, la scintilla di follia. L'impianto teatrale è fortissimo e Polanski non lo stempera granché, arrivando financo a rispettare le tre unità della tragedia classica (spazio, tempo e luogo) ed a girare il film esattamente in ordine cronologico. Le scene al di fuori della casa si contano sulle dita di una mano. La scelta di diverse angolature di ripresa e lo sfruttamento di ogni pertugio offerto da quelle quattro mura sono il tentativo di rendere quanto più dinamico possibile un set altrimenti statico, assieme alla fotografia di Tonino Delli Colli e alle musiche di Wojciech Kilar, sebbene quell'inerzia si sente ed è molto probabilmente una cifra stilistica precisa adottata da Polanski. Altra intuizione non poco sorprendente è quella di Sigourney Weaver per il ruolo di Paulina. Attrice meravigliosa ed estremamente versatile, capace di svariare dalla fantascienza al dramma, dalla commedia ai thriller ed ai film in costume, e tuttavia in qualche modo estranea e distante dalle atmosfere "alla Polanski", così come dai sapori mesoamericani richiesti dalla vicenda. Come sempre il regista franco-polacco trasforma le sue narrazioni in qualcosa di metacinematografico, che va oltre gli stretti confini della storia. Siamo in un luogo imprecisato (un paese dell'America latina dopo la caduta di un regime), dentro un altro luogo imprecisato (una casa sulla scogliera fuori da ogni riferimento concreto, se non un faro che ogni tanto cerca disperatamente di fare luce su quelle mura avvolte nell'oscurità e nella tempesta). La stessa bufera che si abbatte sulla casa pare riflettere i tormenti e le angosce dei suoi abitanti e - più in generale - quelle di un intero paese chiamato a fare i conti con il proprio passato. Potrebbe essere l'Europa della Germania, dell'Italia, della Spagna o dei Balcani e non ci sarebbe alcuna differenza.
La Weaver si spende con una generosità encomiabile, tratteggiando una donna totalmente consumata dal livore e dalla fobia, costretta a recitare dialoghi verbosissimi, non di rado scanditi da un tale carico di violenza psicologica da abbattere un toro. Una prolissità probabilmente necessaria, perché fa arrivare anche allo spettatore il peso specifico del dolore, ma che in qualche maniera grava il film (inteso come opera artistica) di una zavorra impegnativa. La scena conclusiva è agghiacciante, ora che siamo edotti di cosa sia successo, come e perché, l'espressione di inquietudine e profondo malessere dipinta sul volto di Paulina e - di rimbalzo - quella di serenità e sfrontatezza incollata sui connotati del Dr. Miranda (il quale, mentre ascolta Schubert, trova anche il tempo di accarezza con tenerezza i propri bambini), ci congedano con un senso di impunità, di vuoto e di sconfitta difficilmente sanabili. La Morte E La Fanciulla è certamente un film importante nel curriculum di Polanski (il quale film meno che importanti in effetti non ne ha prodotti), per quanto non uno dei miei preferiti; un capolavoro per qualsiasi altro regista, un'opera quasi "di mestiere", "ordinaria" (mi si passi i termini provocatori) per Polanski. Non nego tuttavia che la scomodità dell'argomento possa aver giocato un ruolo nella mia valutazione, tutta empatica e non razionale, della pellicola. Nel 1992 il dramma di Dorfman venne portato anche a Broadway, con Glenn Close nei panni di Paulina, Richard Dreyfuss in quelli di Escobar e Gene Hackman in quelli di Miranda, altro tris da brividi diretto da Mike Nichols.