
Su soggetto e sceneggiatura di Valentina Di Simone (assieme a Marco Pellifroni), Roger Fratter dirige La Cella, supervisionando il processo di scrittura del film, plasmando secondo la sua visione cinematografica un'opera concepita da altri, come già accaduto in passato ad esempio con Mimesis o Innamorata Della Morte. Fratter tuttavia è una personalità forte e tutto ciò che passa dalle sue mani, dal suo obbiettivo, ne esce trasfigurato "alla maniera di Fratter". Anche il connubio con la Di Simone è altrettanto forte, i due sono al quarto lungometraggio assieme, oltre ad alcuni corti e ai film di Giorgio Molteni (Vanitose e Io, Lei e Lei) il cui montaggio è sempre curato da Fratter. Un'alchimia che funziona e che si avverte lungo la visione de La Cella, un esperimento affatto semplice da tenere in piedi. Fratter non è nuovo a scommesse simili, basti pensare anche al recente Narciso D'Autunno, la cui scrittura sfida lo spettatore a capire ciò che sta accadendo davanti ai suoi occhi. Stavolta la giostra alla quale è chiamato a partecipare chi guarda è quella di una quasi ortodossa unità aristotelica di spazio, tempo e luogo. Morena (Di Simone) è chiusa in una cella mentre racconta al poliziotto che la sorveglia cosa le è accaduto e perché - da innocente a suo dire - sia finita in quella situazione. Attraverso i flashback del suo racconto ripercorriamo i suoi ultimi giorni ma di fatto Morena è chiusa in un luogo angusto di pochi metri, al limite del collasso nervoso e fisico. Il suo aspetto è disfatto, la sua sanità mentale vacilla, i suoi sentimenti sono impazziti per ciò che le è capitato. Assieme a Paulina (Francesca Pellegrini), un'amica che è anche amante, Morena stava circuendo un "vecchio lumacone" (Marco Giacinto D'Aquino, praticamente quasi lo stesso ruolo de Il Professore del 2012 di Sergio Zanetti) col proposito di derubarlo e di approfittare di ogni agio che quella situazione le avrebbe potuto portare. Morena somiglia molto alla moglie defunta del vecchio professore il quale, con il carico di tutte le sue perversioni erotiche, cerca di rivivere le pulsioni amorose di un tempo attraverso la giovane e disponibile ragazza.
- SPOILER: tuttavia c'è dell'altro, Paulina è a sua volta manovrata da una terza persona, insospettabile. Il piano prevede l'immissione nel dark web di filmati violenti e di natura sessuale. La mancata uccisione di Morena da parte di Paulina ed il conseguente rischio di confessione da parte della prigioniera alle autorità competenti possono compromettere i complici. Non andrà a finire bene, i vari protagonisti della storia andranno incontro al proprio destino, naturalmente nero.
Buona parte del girato avviene in uno spazio chiuso e delimitato, con un solo personaggio. La telecamera sta sempre addosso alla Di Simone che deve dare dinamismo e varietà alle corde del proprio personaggio per non stancare lo spettatore. Lo stesso Fratter architetta continui cambi di ripresa, angolazioni e dettagli in primo piano per cercare di rendere il ritmo il meno statico possibile, non potendo contare sull'interazione tra personaggi o sul cambio di ambienti e location. E' la Di Simone che detta i tempi, gli umori e i colori del racconto. Una prova affatto facile la sua, tanto più che Morena è una personalità borderline. In realtà dialoga (ma sarebbe più corretto dire "monologa") con un poliziotto di guardia che vediamo sempre inquadrato in modo sibillino e c'è un perché, anche se lo scopriremo solo alla fine. Le musiche fanno tantissimo in La Cella, gli Amnesia hanno concepito un eccellente main theme che ascoltiamo nei titoli di testa e nel momento clou del film (e che rimane assolutamente in mente, per certi versi ho pensato a quanto fatto da Simonetti per Il Cartaio). Più in generale il commento sonoro è sempre molto ficcante ed appropriato, sottolineando il saliscendi emotivo, la tensione presente in sceneggiatura. Fratter dispensa sapientemente elementi thriller, noir, horror, financo gore, per poi ripiegare su momenti ad alto tasso di erotismo (segnatamente saffico) e senza mai abbandonare il tono fortemente drammatico e direi anche necrofilo di certi passaggi. La Di Simone infatti non di rado si produce in massime esistenziali piuttosto rassegnate e fataliste che non lasciano trasparire spiragli di luce ("tutti perdiamo in questa vita, l'unica vittoria è morire"). Le parentesi sensuali sono condotte da Fratter con la consueta cura e maestria, i corpi femminili sono percorsi, coreografati ed esposti come opere d'arte, mi riferisco in particolare all'incontro tra la Di Simone e la Pellegrini, la cui epidermide è letteralmente decorata come una preziosa pittura.
Si respira un'aria paranoica, soffocante, di forte disagio durante la progressione della storia. Questo declino nervoso è reso plasticamente dal disfacimento fisico di Morena, che perde pezzi di salute mentale e del proprio corpo, menomandosi, sanguinando ed infine terminando la propria esistenza in cerca di liberazione da ogni sofferenza e da quella cella che oltre fisica era anche e soprattutto cerebrale. Molto di ciò che è accaduto durante il racconto di Morena è stato frutto della sua stessa immaginazione, il che ci porta a riconsiderare quanto accaduto ma anziché chiarire i fatti li complica, secondo un piano di realtà che non intende affatto semplificare semmai articolare, sfumare, intorpidire. Il mondo nel quale vive Morena è un mondo buio, privo di luce, in evidente allegoria con il dark web che l'ha risucchiata. Ci sono ideali frammenti carpenteriani che rimbalzano direttamente da Il Seme Della Follia uniti ad un intento abbastanza sperimentale da parte di Fratter. Intrigante l'ultimo quarto d'ora di film; accantonata la Di Simone, scorrono sullo schermo in una sorta di amarcord tanti volti noti ai fratterofili, da Anna Palco a Francesca Cavallo, da Monika Malinowska a Sharon Cimino, già apparsi in precedenti pellicole del regista, qui impiegati in piccoli ruoli di colore che puntellano gli ultimi frammenti di un film che sembra scegliere di disporsi improvvisamente sui binari di un vecchio poliziesco '70, per trovare la propria catarsi.