Ritorno di Avati alle atmosfere de La Casa Con Le Finestre Che Ridono ed in parte dell'Arcano Incantatore (soprattutto per la tematica occultamente maligna). Inquietudini e cornice rural-contadina all'interno della quale il confine tra folclore, superstizione e soprannaturale è labilissimo. Questo il biglietto da visita de Il Signor Diavolo, attesissima pellicola, soprattutto da parte degli estimatori di Avati che iniziavano a non poterne più della estenuante serie di storie drammatiche, nostalgiche e malinconiche (interrotte nel 2007 da Il Nascondiglio) alle quali Avati si dedica oramai da due decenni, pur con delle parentesi differenti (penso a Magnificat, L'Amico D'Infanzia o a I Cavalieri Che Fecero L'Impresa). Con Il Signor Diavolo veniamo rituffati nelle tenebre mani e piedi poiché stavolta abbiamo a che fare col Maligno in persona, non sue possibili emanazioni o eventuali affluenti. Avati prende di petto l'argomento e, all'altezza degli 80 anni, non si perita di affrontare una sfida simile, dimostrando coraggio e indomita voglia di fare cinema. Alla sua veneranda età molti altri registi si sarebbero dedicati a pellicole decisamente più bucoliche e concilianti.
Al netto dell'eccitazione per l'opportunità offerta da quello che è e rimane un grande regista italiano, per mio conto sono più i difetti che i pregi del film. Non ho gradito la scelta della fotografia livida per tutto il tempo (in alcuni momenti i volti sono praticamente in bianco e nero); se da un verso questo astrae i fatti narrati dalla realtà e li trapianta in una sorta di dimensione favolistica parallela (e paradigmatica), dall'altro quei colori così sbiaditi, metallici ed innaturali stanno sempre a lì a ricordarci che stiamo guardando un film, frenando la naturale immedesimazione/immersione dello spettatore nei fotogrammi. Alcuni effetti sono paccottiglia da cinemaccio horror americano per teenager o per palati di lana grossa; Avati è autore sottile e raffinato, e in passato sono bastate semplici inquadrature per generare ansia ed angoscia negli occhi del pubblico. Oggi, come un Rob Zombie qualsiasi, Avati va alla ricerca di pacchianate da luna park un tanto al chilo; mi riferisco all'improvvisa apparizione della culla nel corridoio dell'albergo, con conseguente lago di sangue (per altro platealmente ottenuto - male - con la computer grafica), agli inconsulti ruggiti animaleschi che si odono ogni qual volta si manifesta la dentatura di Emilio (Lorenzo Salvatori), oppure ancora all'insistenza sull'autopsia di Emilio, l'asportazione delle dentatura e tutti i rumori "squisci" di comporto. Da Avati non mi aspettavo queste cadute di stile. Intendiamoci, tutto il resto (di buono) c'è, ma ora evidentemente Avati deve aver pensato che era necessario adeguarsi ai tempi.
Ci sono sottotrame e personaggi tronchi; che fine fa il magistrato di Bonetti? E qual è la funzione della bella del paese (Ariel Serra)? E il padre di Gabriel Lo Giudice? E l'infermiera che lo accudisce e di cui Lo Giudice pare invaghirsi al solo sguardo (Ludovica Pedetta)? Insomma, Avati usa il registro tipico dei suoi film corali da bassa padana, con tanti luoghi, facce e situazioni che fungono da cornice, contesto, che creano un insieme, ma in questo caso, con una storia così affilata, specifica e precisa, tutto quell'universo introdotto sullo schermo, offerto allo spettatore e poi abbandonato di punto in bianco, crea un più che altro senso di disorientamento. Hai l'impressione che quel tal personaggio sia lì per un motivo, che poi porterà a qualcosa o significherà qualcosa, invece è solo dettaglio in background. Non mi è piaciuto l'incipit del film, troppo ex abrupto, che non tiene conto del minimo tempo fisiologico necessario allo spettatore per immergersi nel film; pare un po' buttato via e invece contiene un dettaglio molto importante che si rischia di perdere, visto che Avati ci prende alla sprovvista mentre ancora ci stiamo sedendo nella poltrona del cinema. Questo va di pari passo con qualche taglio di montaggio un po' brusco, che rende alcuni passaggi frettolosi e concitati, quando invece avrebbero potuto sguazzare in un largo respiro di maggior atmosfera.
Fin qui pare tutto male e invece sono molto belle le musiche, il cast è tutto all'altezza, dal primo all'ultimo degli attori (Avati contrariamente ad Argento saprebbe far recitare anche un paracarro). I volti sono incredibili, sempre estremamente appropriati, caratteristici, eterogenei. La cornice agreste mantiene inalterato il fascino avatiano che lo ha reso riconoscibile tra mille; va detto inoltre che l'argomento scelto è decisamente "scomodo" ancorché anche classico al contempo, ricollegandosi direttamente ai grandi film sul Maligno della storia come L'Esorcista o Il Presagio. Non mi sento di dire che Avati lo abbia condotto al meglio delle sue possibilità, ma tuttavia rimane il gran pregio di aver spalancato (nuovamente) quella porta e di averci regalato un nuovo film "di genere".
La sceneggiatura de Il Signor Diavolo risulta aperta e fondamentalmente irrisolta, pregio o difetto... ai posteri l'ardua sentenza. Corretta o meno, io una interpretazione dei fatti me la sono data e, a beneficio dei lettori di Cineraglio, la espongo di seguito segnalando rigorosamente lo SPOILER del caso:
l'ultima scena "svela" che sarebbe Carlo (Filippo Franchini) il vero bambino demoniaco. Emilio era un povero Cristo deforme che ha subito cure con elettroshock da bambino per colpa di un tumore e che ha visto morire la sorellina adottata alla quale era affezionatissimo, insomma un concentrato di sfighe iperuraniche, che certo hanno minato la sua salute psichica, oltre che fisica. Per tutto il film la madre Clara Vestri Musy (Chiara Caselli) lo difende a spada tratta, raccontando tutta un'altra versione, con la bimba morta per fatti suoi e affatto sbranata da Emilio indiavolato. Dopodiché tutta la vicenda lo spettatore la conosce e la dipana grazie ai verbali dell'interrogatorio di Carlo (dunque è la versione di Carlo sostanzialmente) e ai preziosi rincalzi del sagrestano Gino (Gianni Cavina), il quale al momento opportuno fornisce pure documenti che rincarano la dose, attestando le colpe del diavolaccio Emilio nell'uccisione barbara della sorella. Fin dall'inizio lo spettatore è indotto a credere che la vittima sia Carlo e il colpevole Emilio, ma i ruoli sono esattamente rovesciati, tant'è che nella scena che apre il film inizialmente il bimbo che si avvicina alla culla vestito da paggetto assomiglia più a Carlo che a Emilio, mentre poi dopo il fiero pasto le fauci che si alzano grondanti di sangue sono quelle di Emilio, e da quel momento in poi vedremo sempre e solo lui (come nel flashback che scorre mentre Massimo Bonetti addenta il panino con la frittata). Avati ce lo dice all'inizio come stanno le cose (e lo conferma alla fine con la scena finale che dimostra la complicità del sagrestano Gino e il piccolo Carlo), ma "durante" il film viviamo i fatti per come quella comunità ce li racconta, ovvero falsati da malafede satanica e da malafede bigotta, tutta volta a identificare un "diverso" come una minaccia dalla quale difendersi. In tal senso i vari flashback, compresa l'autopsia, sarebbero da soppesare con la bilancia, per non dire ingannevoli. Il personaggio della Caselli è chiaramente molto marcato in termini di altezzosità ed antipatia proprio per allontanare dallo spettatore la minima forma di empatia e solidarietà umana, ma la poveretta per tutto il tempo dice la verità, ed il cadavere della bimba nella cesta a fine film non mostrerebbe in effetti segni di sbranamento (anche se, va detto, la si intravede appena). Si pensi anche al padre di Carlo la cui morte ripete allegoricamente quella del maiale ucciso a fucilate poco prima, e chi era che si opponeva disperatamente all'uccisione del vero piangendo disperatamente? Esatto Carlo, eppure la morte del padre - nel racconto che fa Carlo - viene naturalmente attribuita ad Emilio....