Cinque puntate sulla Rai nel 1971, un successo enorme, quasi 15 milioni di italiani incollati (e spaventati) davanti alla tv mentre fuori si faceva buio, in attesa di sapere che fine avrebbe fatto il Professore Edward Forster (Ugo Pagliai) ed a cosa avrebbero portato le sue ricerche oltre il portale dell'occulto, dell'esoterismo e dello spiritismo. Il pubblico televisivo italiano non era per nulla abituato a quel genere di tematiche "gotiche", dal taglio prettamente anglosassone; al Festival di Sanremo non si muoveva foglia che Democrazia Cristiana non volesse, figuriamoci mettere in bella evidenza Bafometti, morti che camminano e visioni ultraterrene. E' vero, un anno prima Dario Argento aveva già sconvolto le platee con L'Uccello Dalle Piume Di Cristallo, e più addietro pure Mario Bava si era dato un bel da fare, però al cinema ci andavi per scelta, in tv invece subivi supino ed eminenze superiori - dotte, illuminate e sapienti - decidevano cosa era giusto per te. Chissà come passò tra le maglie del perbenismo, del moralismo e del paternalismo di allora un'idea bislacca come quella de Il Segno Del Comando. Volontà arcane, evidentemente.
La gestazione fu alquanto travagliata, Dante Guardamagna, Flaminio Bollini, Lucio Mandarà e Giuseppe D'Agata lavorarono alacremente alla sceneggiatura; Guardamagna e Mandarà furono i primi ad abbandonare il progetto, Bollini fu il terzo e così il solo D'Agata terminò la stesura. Seguirono altri mesi di elaborazione produttiva in seno alla Rai, ed infine le riprese, suddivise tra Roma e Napoli (anche se tutta la vicenda ha luogo esclusivamente a Roma). Tanta fatica si sente e si vede nel corso delle cinque puntate. Lo sceneggiato parte in modo scoppiettante (prima e seconda parte), si ingarbuglia lungo la strada (terza e quarta), infine si risolve (quinta) cercando di portare a compimento coerente tutte le trame intraprese, non senza qualche vuoto d'aria e qualche sbalzo con la frizione in prima. La sceneggiatura è tutto fuorché scorrevole e lineare, e si ha proprio l'impressione di un continuo rimaneggiamento, di un incessante lavorìo di limatura e di razionalizzazione delle mille parentesi aperte. Tuttavia, nonostante ciò, si perdona ogni pesantezza e farraginosità al prodotto finito perché il coraggio è tale e le atmosfere sono tali da edulcorare qualsiasi eventuale inciampo.
Oggi il gusto di una (re)visione raddoppia poiché, oltre al normale effetto che lo sceneggiato già causava di per sé sugli spettatori dell'epoca, si aggiunge l'effetto "temporale", o sarebbe meglio dire a-temporale, dato che la sensazione è esattamente quella di essere risucchiati in un buco nero e scaraventati all'estremo opposto, al varco di uscita agli antipodi, dove vige uno spazio senza tempo ed un tempo senza spazio, collocati oltre le nostre coordinate fisico-gravitazionali. Un mondo ideale, un eterno presente collocato da qualche parte in un passato mitico e mitologico nel quale Ugo Pagliai, Carla Gravina, Massimo Girotti, Paola Tedesco eccetera incarnano maschere e personaggi immanenti, come delle idee platoniche schierate in truppa tutte lì per noi, pronte a deliziarci ed intrattenerci con una rappresentazione effettivamente soprannaturale che sfiora il sublime.
Il tono attoriale è datato (oggi), eppure meraviglioso; altri tempi, altro stile, altra cifra artistica. Grandi silenzi, sguardi carichi, rumori di quinte teatrali, lentezze narranti al pari delle musiche e dei dialoghi. Si viene come ipnotizzati, mesmerizzati, si cade vittima dello stesso sortilegio del quale è schiavo Foster/Pagliai, rapito dalla bellezza e dal fascino misterioso di Lucia/Carla Gravina, che disperatamente rincorre e cerca ininterrottamente per cinque puntate. Non c'è un solo personaggio/attore che non valga il prezzo del biglietto, dall'ultima delle comparse al primo dei protagonisti. Suggestioni, simbolismi, seduzioni e sortilegi irresistibili. Il livello è altissimo (ancora oggi la scena della seduta spiritica mette i brividi e batte l'horror più scafato) e davvero stupisce quanto argomenti così "pericolosi" e inquietanti siano stati proposti ed accettati negli stessi anni nei quali l'ombelico della Carrà in prima serata diveniva motivo di grande scandalo.
I libri sono i veri protagonisti de Il Segno Del Comando, Forster li compulsa continuamente, sono l'origine dell'enigma e al contempo la chiave della sua risoluzione, e chiunque dentro la storia abbia un ruolo degno di nota prima o poi ha a che fare con le pagine di un vecchio tomo sapienziale che spiega, illustra, rivela e guida. Un mondo concepito secondo la guida della scienza, nel senso di "consapevolezza" derivante da chi ci ha preceduto, un mondo fatto di auctoritas inderogabili (non era ancora il tempo - per fortuna - dell'invito a strappare le "tediose" e "boriose" introduzioni dei libri per farsi un'idea "in proprio" sull'interpretazione dei versi dei poeti). Ci sono lunghi tratti dello sceneggiato nel quale ci limitiamo a seguire dei personaggi che vanno da un posto all'altro alla ricerca di libri che daranno spiegazioni, apriranno porte fisiche e mentali; biblioteche, archivi parrocchiali, collezioni private, un grande percorso culturale. Volumi equiparati ad opere d'arte, un universo nel quale la pittura, la musica, la letteratura sono tutte riconducibili all'Arte con la A maiuscola, maestra di vita e genitrice che nessuno oserebbe mai mettere in discussione o svergognare.
Eccellente la colonna sonora, sempre calzante ed appropriata; commovente la canzone "Cento Campane" di Fiorenzo Fiorentini (testo di Romolo Grano), cantata però da Nico Tirone del gruppo beat Nico e i Gabbiani, straziante e struggente nella sua eterea levità, commento divenuto iconico dell'intero sceneggiato. Citazione a parte anche per Paola Tedesco, di una bellezza assoluta (e vestita divinamente), e tuttavia il suo personaggio, come molti altri, non ammicca e non fa leva sulla mera bellezza per imporsi al pubblico, anzi quel tratto descrittivo è quasi messo da parte, pudicamente smussato, a fronte di una razionalità, una profondità ed un'intelligenza assai più pregnanti e marcate. Per quanto possa apparire financo "confuso", Il Segno Del Comando è scritto bene e questa è la sua grande ed inarrestabile forza. Nel 1987 D'Agata ne trae un romanzo (omonimo) nel quale molti punti rimasti in sospeso o fuori fuoco vengono rielaborati e chiariti (del resto si parlò dell'esistenza di ben cinque diversi finali per lo sceneggiato). Nel 1992 Giulio Questi si avventura su Canale 5 in un remake concentrato in una sola puntata.