Nel 1964 Barbara Steele ha già qualche gotico alle spalle, non ne è magari ancora la regina conclamata ma lo sta diventando. In quell'anno gira due pellicole con Margheriti che contribuiranno ad edificarne la fama in quello specifico filone horror, Danza Macabra e I Lunghi Capelli Della Morte. Per Margheriti, dal canto suo, il titolo si incastra tra altri che vanno a parare tra peplum, storico, fantascienza e documentari alla mondo movie. Nulla di nuovo per il regista romano, capace di calarsi praticamente in qualunque atmosfera senza temere alcuna contraddizione o effetto jet lag. Questo lungometraggio che porta la firma di Gastaldi alla sceneggiatura (e le musiche di Carlo Rustichelli) si insedia nel gotico italiano più classico, con il suo bianco e nero sontuoso (fotografato egregiamente da Riccardo Pallottini), i suoi debiti fanta-medievali verso Edgar Allan Poe (la pestilenza de La Maschera Della Morte Rossa e lo sfacelo aristocratico degli Usher), la stregoneria, l'erotismo sottotraccia, soffocato ma mai domato (c'è anche un fugace sguardo gettato sui seni della Steele), un castello principesco con i suoi oscuri sotterranei, il clero severo ed austero, e naturalmente tanto terrore. La vicenda è semplice quanto paradigmatica e vede una strega messa al rogo per un crimine che non ha commesso. In punto di morte getterà la maledizione sui nobili del castello e sul loro popolo; maledizione che puntualmente si concretizzerà per mezzo di una pestilenza (siamo alla fine del '400), con la morte e l'impazzimento dei conti e della loro stirpe.
Bellissime le due prime donne di questa storia, la Steele (vero deus ex machina degli accadimenti) e Halina Zalewska, sposa controvoglia del sordido George Ardisson, doppiato dal doppiatore di Richard Burton, Giuseppe Rinaldi, una voce che automaticamente tramuta la tragedia a cui assistiamo in un ritratto dai sapori quasi shakespeariani. Del resto la Steele ha la voce di Maria Pia Di Meo (Meryl Streep, Shirley MacLaine, Audrey Hepburn, Jane Fonda, Barbra Streisand, Tippi Hedren ed un miliardo di altri attrici nel suo carnet). La recitazione è molto intensa e teatrale, non sarebbe potuta essere altrimenti dato il clima "favolistico" della storia e soprattutto le scenografie estremamente suggestive curate da Giorgio Giovannini nel quale tutto si consuma. Si respira un clima claustrofobico, la peste è sulla pelle dello spettatore così come il senso di minaccia incombente, di soprannaturale e di diabolico che ossessiona in primis Ardisson. L'esplorazione della cripta del castello è un viaggio nell'ignoto tenebroso e mefistofelico, ed il finale puntualmente giunge a rendere tutto più atroce, angosciante ed orrorifico (anticipando per altro certi elementi di The Wicker Man del 1973). Forse rivisto oggi, ad oltre mezzo secolo di distanza, il film evidenzia una certa lentezza e qualche ingenuità che nel 2000 e passa possono sembrare puro candore, ma esattamente come per la letteratura dei Poe, dei Lovecraft o dell'Ottocento inglese, la classicità non passa mai di moda, occupando un luogo senza tempo e senza spazio, rinnovandosi continuamente, come sovente accade per il mito. Curiosa la scelta della chioma bionda ritratta nella locandina, considerando che nel film tutto è nero come la pece.