Frankenstein

Frankenstein
Frankenstein

Galvanizzata dal successo riscosso dal Dracula con Bela Lugosi, la Universal non esitò un attimo ad accontentare il regista James Whale quando egli, avendo carta bianca da parte della major, volle dirigere la storia creata da Mary Shelley, come suo prossimo film da realizzare. Sempre Bela Lugosi sarebbe dovuto essere il mostro della situazione, ma l'attore ungherese pensò che tanto trucco in faccia ed un ruolo addirittura senza battute in sceneggiatura sarebbe stata più una mortificazione che un'opportunità, in fondo il Conte transilvano era un gran bel damerino, pieno di fascino e carisma. Per la verità Lugosi ci provò anche a calarsi nella parte, ma dopo essere stato conciato come il golem dell'omonimo film di Wegener e Galeen (1915), segno di un'evidente indecisione e confusione sulla direzione che doveva prendere il make up della creatura, abbandonò inorridito. Si narra che esistano 20 minuti di girato, mentre la locandina esiste con certezza ed è sopravvissuta fino a noi, la si trova facilmente in rete; Lugosi/Frankenstein è curiosamente ritratto alla maniera di King Kong (che però è di due anni dopo), sovrastante la città e la povera gente inerme, mentre spara raggi dagli occhi. A Lugosi subentrò quindi William Henry Pratt, nome d'arte Boris Karloff, attore inglese con oltre 80 interpretazioni già all'attivo, ma sostanzialmente sconosciuto. La sua vita cambiò radicalmente ed irreversibilmente dopo questa pellicola. E con l'avvicendamento del protagonista mutò anche il regista, con l'arrivo di Whale a scalzare la prima scelta Robert Florey. Il film ora era in mani artistiche saldamente britanniche (e Mary Shelley gongolava nel tumulo di famiglia).

Carl Laemmie Jr, figlio del boss della Universal, si era intestardito con gli horror e ci aveva visto giusto, nonostante le iniziali ritrosie paterne. La Universal inaugurò un vero e proprio genere, ed a distanza di quasi un secolo è assurta definitivamente a Grande Madre dell'horror e dei mostri, titolo nobiliare che chiunque nel mondo del cinema le riconosce oltre ogni ragionevole dubbio. Prima del '31 di Frankenstein teatrali e cinematografici ce n'erano stati già alcuni, uno pure italiano, ma vennero spazzati via in un attimo, esattamente quello nel quale il film di Whale debuttò nelle sale, divenendo allora e per sempre "IL" Frankenstein. Il cinema espressionista tedesco era il faro ispiratore, Il Gabinetto Del Dr. Caligari, Il Golem, etc, erano le opere di riferimento, anche e soprattutto per il magistrale uso delle luci e conseguentemente dei chiaroscuri, delle profondità e delle atmosfere. La sceneggiatura apportò alcune variazioni rispetto al romanzo, per rendere la storia più "cinematografica". e soprattutto creò di sana pianta il personaggio iconico dell'aiutante gobbo e maldestro del Dr. Frankenstein, qui interpretato da Dwight Frye e eternatosi in mille altri film, fino allo sghembo Riff Raff del Rocky Horror Picture Show.

Tre ore e mezzo era il tempo che quotidianamente Karloff doveva dedicare alle sessioni di trucco, naturalmente lontano anni luce dalle raffinate tecniche di oggi e quindi assai più pesante da sopportare ed indossare. Jack Pierce, anche facendo tesoro dei suggerimenti di Whale, fu il genio che inventò e modellò quella maschera che ancora oggi sopravvive indelebile nella mente di tutti i cinefili e non. Per chiunque oramai Frankenstein è Boris Karloff, senza alcun grado di separazione. L'attore arrivò persino a farsi togliere un ponte dentale per assumere la fisionomia emaciata della creatura. L'intelligenza del trucco fu quella di lasciare che l'espressività dell'attore potesse realizzarsi a pieno, caratterizzandolo massicciamente ma allo stesso tempo non ostacolandone i liberi movimenti e le sfumature di interpretazione. Ai piedi Karloff portava 20 kg per gamba e gli scarponi lo alzavano di almeno 20 cm (senza contare le maniche della giacca realizzata appositamente più corte per trasmettere l'idea di braccia smisuratamente lunghe, del resto il corpo della creatura era un taglia e cuci di parti di diversi cadaveri). Pare che Karloff subì molti contraccolpi fisici per i danni posturali riportati nei giorni delle riprese e, per questo motivo, dovette poi subire tre operazioni chirurgiche alla schiena.

Meravigliose le scenografie, a tratti evidentemente posticce, con fondali e tendoni fin troppo scoperti, ma che non mancano di creare un senso di angoscia e oppressione. Qui il marchio dell'espressionismo tedesco è davvero preponderante. Whale e la Universal si inventano un trademark che non lascerà mai più il mondo di Frankenstein, il laboratorio scientifico del Dottore, mai descritto da Shelley, perlomeno non con tanta accuratezza. Nel romanzo si allude quasi alla magia nera o a strani elisir, la scienza c'entra poco e nulla. Nel film invece il realismo, galvanismo, la medicina, nonché gli studi di Nikola Tesla, sono alla base delle ricerche e delle scoperte del leviatano creatore del mostro, l'elettricità, i fulmini, la biologia fondono insieme i propri poteri, sotto la sapiente orchestrazione dell'uomo, arrivando a originare una seconda vita dopo la morte ("In nome di Dio! Adesso so cosa significa essere Dio!"). Una scena molto delicata da girare fu quella dell'annegamento della piccola Maria, dato il carico fortemente emotivo e commovente che portava con sé. Karloff non voleva gettarla in acqua e cercò fino all'ultimo di cambiare la sceneggiatura ma alla fine dovette subire il diktat di Whale.

Quel momento così altamente drammatico, così come altri (i primi piani del mostro, l'iniezione dell'anestetico, le torture con la torcia, l'impiccato scagliato a terra, etc.), impressionarono molto il pubblico, che rimase letteralmente scioccato. Il film si apre con un prologo voluto appositamente dalla Universal che in qualche misura avverte gli spettatori più fragili; oggi parrebbe un mezzo volto ad incuriosire ancora di più il pubblico, ma allora fu pensato come un vero e proprio avvertimento. L'assurdo è che rivedere il film oggi fa scattare automaticamente l'associazione con la parodia di Mel Brooks (alcune scene sono letteralmente identiche, così come alcuni scenografie - soprattutto il laboratorio - sono realmente le stesse), e diventa impossibile non sorridere di fronte a momenti che tutto sono fuorché comici o ironici.

Frankenstein è un capolavoro assoluto. La caccia al mostro è terrificante, l'incendio del mulino è straziante, i momenti di umanità della creatura (tutti da ascrivere a Karloff) sono struggenti, dal semplice movimento delle mani quando la creatura viene esposta alla luce naturale, al rapporto con la bambina (dove la creatura addirittura sorride e forse calma per un solo ed unico istante in tutta la sua breve ri-esistenza la propria angoscia) o alle sopraffazioni sadiche che deve subire da parte dello stolto Dwight Frye. Il parallelo tra il mostro e l'uomo dà la vertigine, l'amore e l'odio verso il proprio creatore, folle, esaltato ed inconsapevole più della sua stessa creazione, sono binari subliminali che fanno scattare l'identificazione nella creatura, più simile a noi di quanto vogliamo ammettere. Il suo terrore, la confusione, il sentirsi braccata, l'incapacità di ottenere dal proprio fisico ciò che la mente vorrebbe comanderebbe (e non per propria colpa), addirittura la mancanza della parola. Una "rinascita" tanto breve quanto intensa nella sofferenza, nel dolore, nella rabbia e nella paura. Certamente una vita che non valeva la pena di essere ri-vissuta e che viene imposta senza essere stata richiesta. Un monito per l'intera umanità, un monumento punitivo e delirante alla hybris dei figli di Dio, autoproclamatisi a loro volta Dei.

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