
Bruno Dumont scrive e dirige questa pellicola tutta costruita attorno a Léa Seydoux, autentica calamita dell'obbiettivo del regista, alfa e omega di ogni scena, uber protagonista assoluta della storia che vede la giornalista televisiva France De Meurs essere una divinità dei media francesi. Tutti la amano, la adorano, le chiedono selfie, autografi, è idolatrata dalla sua segretaria, è la regina dei programmi di approfondimento, conduce inchieste sul campo e persino quando causa un incidente stradale c'è chi si precipita a chiederle selfie anziché preoccuparsi dei feriti. Proprio quell'incidente però fa scattare qualcosa nella testa di France. Si scontra con la realtà, che nel suo caso ha le fattezze di una famiglia di modesto tenore economico che France cerca in ogni modo di aiutare, sentendosi colpevole dei loro disagi ulteriormente aggravati dalla condizione di infermità del ragazzo che lei ha investito con l'auto. Da lì in poi sarà una discesa dentro le tenebre di se stessa, infelice, depressa, esaurita da uno stile di vita che improvvisamente non le si adatta più e che anzi la soffoca e la opprime. France percorrerà una strada impervia per risalire in superficie e venire a patti con se stessa e con il suo ego ipertrofico, anche passando attraverso un ricovero in clinica (che per la verità pare più un resort per ricconi snob), fino a riprendere in mano le redini della propria esistenza. Ma l'imponderabile è sempre in agguato.
Dumont dirige un film alquanto enigmatico che in tutta sincerità non mi trasmetteva grandi vibrazioni prima di vederlo e del quale, anche durante la visione, rilevavo molti difetti. Poi però nel tempo è cresciuto, sono tornato col pensiero a quella storia, a quei fotogrammi, e mi sono reso conto di quanto in realtà avesse scavato dentro di me in profondità. Estremamente interessante la messa in scena di France, spesso volutamente artefatta ed onirica. Mi riferisco ad esempio alle frequenti scene dentro l'automobile, dove la Seydoux viene ripresa sempre di schiena (come fossimo nei sedili posteriori) e il parabrezza della sua Citroen concede visuali enormi, al pari di un visore per la realtà virtuale, un vero e proprio schermo cinematografico. Più in generale quando anche altri personaggi sono ripresi in auto i fondali che scorrono alle loro spalle appaiono visibilmente innaturali; oppure quando France guida verso la clinica in montagna davanti ai suoi occhi si apre un paesaggio fantasy del tutto immaginifico, dal bianco accecante. La Seydoux indossa abiti sempre molto vistosi, coordinati, glamour, lussuosi. La sua casa è una specie di museo di arte e design dai colori cupi ed intensi con prevalenza di rosso e nero. Spesso e volentieri Dumont si trattiene sui primi piani mentre i personaggi sostengono sguardi dalla durata interminabile; c'è evidentemente una semantica, una precisa scelta in questa opzione che il regista esercita continuamente, sguardi su sguardi, a oltranza. Penso a quelli che si scambiano France ed il marito Fred (Benjamin Biolay) a tavola, in mezzo agli amici, a quelli che France e la sua troupe televisiva rivolgono alla staccionata di campagna dove è stato improvvisato una sorta di memoriale per una bimba abusata e poi uccisa da uno stupratore seriale, oppure ancora al pianto di France in auto dopo aver litigato con Charles (Emanuele Airoli). Ma ce ne sono in enorme quantità lungo tutto il film.
La spietatezza e l'ipocrisia del mondo mediatico e televisivo, fatto di arrampicatori, speculatori e carrieristi, sono rese in modo alquanto sconcertante e la stessa France è tutto fuorché un personaggio lineare. Conosce la sofferenza, ne viene attraversata e ferita, ma mantiene sempre una certa ambiguità di fondo che non rende semplicissimo per lo spettatore empatizzare con lei. Complice in questo anche lo sguardo enigmatico della Seydoux, bellissima e sfuggente al contempo. Ogni qual volta France sembra essere vera ed arrendersi alla vita senza cercare di domarla o considerarla il proprio palcoscenico, accade qualcosa che le fa fare un passo indietro, riportandola alla sua fase precedente. Emblematico il discorso che fa sul finale a Charles, che pare il monito della sfinge. Non esistono sogni, speranze, ideali e aspettative, bensì solo il presente, che noi continuamente rimandiamo ad un domani che è già oggi e che rischiamo di farci sfuggire dalle mani. In un misto di rassegnazione, malinconia e pacificazione interiore, France sembra accettare definitivamente ciò che sarà, senza aspettarsi null'altro. La vita rimette ogni cosa al suo posto, nel bene e nel male.
- SPOILER: alcune scelte di sceneggiatura sono molto "francesi", non sempre digeribilissime per un pubblico straniero. La scena dell'incidente di Jo (Gaëtan Amiel) e Fred è inutilmente complessa e arzigogolata. E' evidente sin dal primo fotogramma che i due dovranno cadere nella scarpata eppure Dumont ci gira intorno in modo pedante ed irritante. Dapprima la ruota scoppiata, poi lo sbandamento, poi l'auto che cappotta ma sul versante sicuro della strada, poi il tir che sopraggiunge e li spinge per decine di metri, infine lo scivolamento lungo la scarpata, una forma di sadismo che si diverte sin troppo con la speranza dello spettatore che i due possano salvarsi. Il modo in cui France scopre che Charles è un impostore è poco credibile, figuriamoci se un giornalista undercover così scafato andrebbe in bagno lasciando il suo cellulare in bella vista sul tavolo, alla mercé della sua vittima. Ed il suo petulante tornare e dichiararsi innamorato è fastidioso. Così come il continuo blaterare di Lou (Blanche Gardin), il braccio destro di France, dai tratti parossistici quanto ad adulazione della capa (ogni dieci parole ripete "geniale"). Rimane il dubbio che il nome della protagonista intenda essere (anche) un'allegoria del circo mediatico, magari con specifici riferimenti a personaggi nazionali del mondo della tv e dello spettacolo francesi, un ritratto affatto consolatorio ed edificante di qualche giornalista o mezzobusto verso cui evidentemente Dumont non nutre grande stima.