Kieślowski è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi registi mai esistiti, tra le sue opere monumentali c'è anche questa trilogia dedicata alla bandiera francese (e per proprietà transitiva alla Francia), riprodotta nei tre colori, allegoria delle tre virtù fondanti della République, libertà, fraternità ed uguaglianza. Il primo colore è il blu ed il primo attributo è la libertà. Impegno difficile, arduo, che avrebbe scoraggiato molti altri autori. Kieślowski tuttavia non fa politica e non intende tradurre le sue allegorie in chiave militante, ideale e civile. La sua è stata definita una "morale laica", che attraverso l'osservazione del piccolo, del minuto, del quotidiano, del reale, erige poi un affresco universale. Lo spettatore infatti è messo al cospetto della storia di Julie (Juliette Binoche), madre e moglie che in un attimo vede distrutta la propria vita, un incidente d'auto le porta via il marito e la figlia, lasciandola tumefatta in un letto d'ospedale. Il primo desiderio è farla finita ma non trova il coraggio, allora attua un piano più infernale, spegnersi, attraversare la vita senza viverla, cancellando ricordi materiale e mentali della sua esistenza precedente, quando era felice. Quel che accade è che la Vita, quella con la V maiuscola, è più forte di Julie e, nonostante tutti gli sforzi della piccola formichina, il flusso vitale ha la meglio, permeando poco a poco Julie, con la costanza e l'ineluttabilità di un oceano.
- SPOILER: nonostante la donna rifiuti nuovi amori, legami ed amicizie, non voglia avere un lavoro ed abiti una casa per mere necessità primarie, scoprirà che tutto intorno a lei il formicaio continua a correre incessantemente. Per caso apprende che l'amato marito coltivava una relazione adulterina da tempo e che addirittura aspettava un figlio dall'amante; questo dolore sarà un pungolo di svolta per Julie che riprenderà a vivere, impossibilitata a fare altrimenti.
La libertà della protagonista pare inizialmente quella di poter abdicare a tutto, Julie sceglie di non vivere, di non essere, rinuncia a tutto e a se stessa. Ma col prosieguo del tempo si renderà conto che quella che lei guardava come una conquista di libertà - ancorché nichilista - è in realtà una prigione, l'esatta antitesi della libertà, una gabbia, un buco nero nel quale si è rinchiusa volontariamente e che non fa che immobilizzarla sempre più. Quando scatta quell'interruttore, Julie inverte il circuito liberandosi delle catene e provando a ricostruire ciò che era stato distrutto. Kieślowski costruisce in maniera mirabile il lento e progressivo riaffioramento alla vita di Julie, coadiuvato da una Juliette Binoche superlativa. La macchina da presa è quasi esclusivamente su di lei, sulle sue espressioni di dolore ed introspezione, una sofferenza che lo spettatore percepisce a coronarie aperte, così come ogni non detto, ogni sguardo carico di lacrime, ogni silenzio, trasmette il senso di nausea e insensibilità che la protagonista prova per la situazione in cui è venuta a trovarsi. Ciò nonostante ci sono piccoli barlumi di umanità, come nel caso del rapporto con Lucille (Charlotte Véry), la prostituta che abita al piano di sotto nel suo condominio, quello con Sandrine (Florence Pernel), l'amante incinta del marito, e con Olivier (Benoît Régent), collaboratore del marito, che ama da tempo segretamente Julie, senza mai invaderla. Suggestivi i giochi simbolici di Kieślowski con i colori (anzi il colore, un blu dominante che si ripropone continuamente) e la musica, falsariga sulla quale si muove la sceneggiatura, poiché il marito di Julie era un compositore molto importante, incaricato addirittura di scrivere una sinfonia che celebrasse l'Unione Europea. La musica la vediamo, la percorriamo e la sentiamo durante il film, quasi in carne ed ossa, Kieślowski la tramuta in un ulteriore personaggio della sua pellicola. La marcia funebre che accompagna le bare del marito e della figlia di Julie è stata poi eseguita al funerale dello stesso Kieślowski nel 1996. Lo sviluppo della storia è graduale, dopo il dramma iniziale lo sguardo del regista polacco è all'insegna del minimalismo più totale, l'obbiettivo della MdP è praticamente quello di un microscopio da laboratorio. Passo passo la visuale si apre, comprendendo sempre più luoghi e persone, fino al finale un po' tronfio (e trionfante) che qualcuno ha criticato, ma che tutto sommato si dimostra perfettamente coerente e consequenziale rispetto alle intenzioni ed al disegno di Kieślowski, e che sostituisce la vita con la morte, chiudendo (o aprendo?) il cerchio. Un film emozionante e suggestivo, molto vero ed al contempo molto doloroso. Leone d'oro a Venezia a Kieślowski e premio per la miglior interpretazione alla Binoche.