Primo film di Piero Schivazappa e primo film italiano di Dagmar Lassander. Si fa fatica a credere che quel Piero Schivazappa sia lo stesso de La Signora Della Notte, ultimo film del regista emiliano. Nel mezzo c'è una carriera di pochi titoli, tuttavia la cifra dei due film, sia da un punto di vista autorale che registico, è molto distante. Femina Ridens è una pellicola fortissima sotto ogni punto di vista, concettuale, tematico, come mise en scene, non a caso alla sua uscita subì qualche traversia con la censura, e ancora oggi mantiene un certo alone di trasgressione. Nel 1969 l'onda lunga del '68 era plastica, e un film com Femina Ridens, cinico sin dal titolo, non lesinava colpi bassi alla morale e al buon senso borghese. Schivazappa ci racconta il femminismo, ma a modo suo, ambiguamente, e una volta terminato il film, non ti è affatto chiaro quale dei due sia il sesso "debole".
Philippe Leroy è un megadirettore filantropo che nel privato coltiva rapporti bestiali con le donne; è uso pagare prostitute prezzolate per trascorrere con loro dei fine settimana all'insegna della tortura e dell'umiliazione. Da bambino, la visione di una mantide che uccideva il maschio durante l'accoppiamento lo ha traumatizzato e, una volta adulto, Leroy ha sviluppato il terrore delle donne, con le quali riesce ad instaurare legami basati unicamente sulla sopraffazione e la sessuofobia. Un sabato la solita prostituta gli dà buca e Leroy decide di approfittare di una impiegata (Dagmar Lassander) che passa a casa sua per ritirare dei documenti di lavoro. Leroy la imprigiona e sfoga su di lei tutti i suoi istinti di violenza. Due giorni dediti alla mortificazione del corpo e della psiche della sua vittima, attraverso ogni dispetto e martirio possibile. Fino a che, progressivamente, la situazione si rovescia, e l'aguzzino sembra diventare la vittima.
- SPOILER: la cosa atroce del film è che la dolce e ingenua Lassander ha pianificato tutto fin dall'inizio, ha letteralmete teso una trappola a Leroy, lo ha portato al culmine delle sue manie paranoiche e poi lo ha addomesticato come un cagnolino, fino alle estreme conseguenze, ovvero la sua uccisione, per la mera affermazione della supremazia della donna sull'uomo. Un totale, assoluto, sbalorditivo rovesciamento della tesi iniziale che il film sembra volerci propinare. Una frustata che lascia interdetto lo spettatore che non sa più a chi credere, rapinato di qualsiasi certezza sulla correttezza dei rapporti (di potere) uomo-donna.
Curioso che la facciata pubblica di Leroy sia quella di un filantropo, un corto circuito rispetto alla sua vera indole di misogino massacratore di donne. Gioca sullo stesso filo il personaggio della Lassander, docile, obbediente e disponibile, la quale, tolti i panni del suo ruolo sociale, si rivela essere una spietata mantide, proprio ciò che Leroy ha sempre temuto. Il che pare suggerire che il pensiero di Leroy, per quanto brutale e grossolano, sia sempre stato corretto, le donne devono rimanere sottomesse, perché al momento della loro emancipazione prenderanno le redini del mondo e distruggeranno gli uomini, come fosse una normale evoluzione darwiniana del più forte che soppianta il più debole. La rappresentazione della violenza, anche e soprattuto psicologica, è molto forte, esplicita, e questo ha indubbiamente disturbato molti spettatori nei tardi '60; non stento a crederlo poiché anche oggi la visione del film è sofferta. Questa aggressione nei confronti del pubblico però si bilancia con una estrema ricercatezza nella rappresentazione. Il film si svolge per quasi un'ora interamente in interni, nella super tecnologica villa-prigione di Leroy, e con due soli attori, lui e la Lassander. Una prova non semplice. Arredi e scenografie sono splendidi, stupefacenti, ambienti lounge di stampo pop art, con riferimenti stilistici precisi che vengono anche citati nei titoli di coda (Claude Joubert, Plexus, Giuseppe Capogrossi, Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely, Per Olof Ultvedt). La fotografia è elegante e gelida al contempo. In soccorso arrivano anche le musiche di Stelvio Cipriani, davvero eccellenti e calzanti, anche se un po' ossessionanti, ma talvolta giocano sull'effetto dissacrante, sottolineando momenti particolari del film.
La Lassander è bellissima, da morirci sul serio. Schivazappa la scelse dopo aver visto Andrée, film austriaco del '68 che in Italia venne bruciato dalla censura (siamo sempre stati avanti.....). L'attrice racconta che la sua carriera inizò per gioco, facendo un favore ad un amico di famiglia che le chiese di fare una piccola particina in un film, da allora i contratti non smisero mai di fioccare. Arrivò in Italia con l'intenzione di proseguire poi per Parigi, Londra, eccetera, ma si fermò qui, vedendosi affibbiare il nome di "prezzemolina" proprio a testimonianza di quanto fosse richiesta nelle pellicole, soprattutto di genere, italiane. Quei due occhi di ghiaccio piantati su un Philippe Leroy insolitamente tinto di biondo posticcio, fanno tremare le vene dei polsi. Femina Ridens viene considerato un erotico, ma la componente dell'erotismo, seppur presente, è quasi collaterale, tutt'altro che ruffiana o utilizzata per fare botteghino. La libido rappresentata da Schivazappa qui è nera, angosciosa, psicologica, sebbene la silhouette della Lassander rimetta in pace col mondo qualsiasi spettatore maschio eterosessuale, pur mancando ancora di quella burrosità che guadagnerà qualche anno dopo. Tra i pochissimi personaggi minori, da segnalare Maria Cumani Quasimodo (la segretaria paraplegica), attrice, danzatrice e poetessa, moglie di Salvatore.