
Nel 1988 andai a vedere al cinema questo film, le polemiche già esistenti sul Tom Cruise fighetto e inconsistente come attore imperavano. Avevo 14 anni, tutto il "dibattito critico" passava sopra la mia testa senza che neppure ne carpissi un'acca, e così sprofondai nella poltroncina di una sala di prima visione, le luci si spensero e per 103 minuti guardai la storia di uno yuppie barman straccia uteri che roteava le bottiglie come un giocoliere del circo Togni. Tommasino Missile era sì quello di Risky Business e dell'imperdonabile film di propaganda reaganiana Top Gun (imperdonabile per gli altri, sia chiaro), ma era già anche quello della favola fantasy Legend di Ridley Scott e de Il Colore Dei Soldi di Scorsese, accanto al mostro sacro Paul Newman. Io allora tutte queste sfumature non ero in grado di coglierle, ma col tempo mi sono reso conto che Cruise non era poi questo mostro di vuotezza che il criticismo militante dipingeva, né d'altra parte mi è mai venuto il dubbio che andasse paragonato a Orson Welles. Cocktail forse è il film sbagliato nel momento giusto. Subito dopo Tom girerà Rain Man e Nato il Quattro Luglio, che lo consacreranno definitivamente e che costringeranno parecchi di quelli col fucile puntato a dover ammettere, maledettamente controvoglia, che il ragazzo in fondo ci sapeva fare, nonostante il bel faccino e quegli atteggiamenti sboroni grondanti sicumera e antipatia.
Cocktail invece è probabilmente il peggior film di Cruise, perlomeno a livello di contenuti e di semantica cinematografica. Perfetto prodotto per l'epoca (i ruggenti anni '80) esprime il peggio del peggio dell'edonismo del periodo, lo yuppismo sfrenato, un certo maschilismo cavernicolo, il culto dell'apparenza e del sogno americano fine a sé stesso, svuotato di quella carica dirompente e propositiva che pure è insita in esso, per ridursi ad una sfilata di figurine ben vestite, pettinate e con l'affidabilità di un trapano Black & Decker a letto. Brian Flanagan (Cruise) ha servito il proprio Paese sotto le armi per un anno. Tornato a casa, pieno di manuali su come guadagnare con spregiudicatezza milioni di dollari e dominare il mondo con la propria mente - in effetti, se ci si pensa, Don Hubbard sarebbe andato a nozze con questo film - cerca di affermarsi a Wall Street, ma la sua totale mancanza di curriculum e studi appropriati lo fa scontrare subito con la cruda realtà. Porte chiuse e calci nel sedere. Per mantenersi inizia a fare il barista a Manhattan; strano a dirsi, ingrana subito, divenendo il beniamino dei clienti del bar, soprattutto delle clienti. Il suo rapporto col capo barista Doug Coughlin (Brian Brown) è di amore e competizione, i due si scontrano spesso ma hanno bisogno l'uno dell'altro. Dopo l'ennesimo litigio, Flanagan si sposta in Giamaica dove apre un suo bar, ma si trova costretto ancora una volta a raccogliere una sfida lanciatagli da Coughlin, che nel frattempo ha sposato una biondona ricca e facile. Nonostante Flanagan coltivi un amore puro verso Jordan (Elisabeth Shue), una ragazza semplice che si mantiene facendo la cameriera, punta come un mastino una riccona attempata, della quale diventa il toy boy. Tornato in America, impiega il suo tempo facendo lo stallone a letto e lo zerbino fuori dal letto, fino a che capisce che la sua vita non sembra andare da nessuna parte. - SPOILER: complice il suicidio di Doug, impelagatosi nei debiti, riprende in mano le priorità che contano, recupera il rapporto con Jordan (non senza qualche difficoltà, visto che il padre in realtà è un ricchissimo uomo d'affari del tutto ostile al fidanzamento della figlia con un barista spiantato) e riesce a coronare il suo sogno di aprire un bar tutto suo a New York chiamato Flanagan's Cocktails & Dreams (locale che avrebbe dovuto condividere con Doug).
Cocktail procede su una linea retta di superficie che non va mai in profondità. E' come una puntata di Beverly Hills 90210, come un cd degli One Direction, come una seduta di trucco e parrucco di Violetta; una strategia commerciale con un target preciso e puntuale: i teenager di fine anni '80. Il mondo dei locali è pirotecnico come fossero circuiti di Formula 1, non ci si limita a bere ma si stupisce il pubblico con giochi, acrobazie, spettacolarità del nulla, versare da bere dentro un bicchiere come fosse fare il giro della morte con il monopattino in un cerchio di fuoco, bendati e con le mani legate. Tutto molto scintillante, ma quando ci si chiede quale sia lo scopo, l'unica risposta sono i 78 denti che Tom Cruise esibisce ad ogni inquadratura. Personalmente sono un fan di Cruise, lo difendo sempre, col tempo è migliorato come un vino che invecchia bene, e chiunque abbia da sparare sentenze si becca un "guardati Collateral e poi ne riparliamo". Tuttavia, proprio per la mia inquestionabile fedeltà all'attore, ammetto serenamente che il Cruise di Cocktail è letteralmente insopportabile. Fastidioso, detestabile, molesto, irritante, capisco bene che facesse (e faccia) faville agli occhi del pubblico femminile, ma la stronzaggine che dona al suo Flanagan è senza pari. Incontrarlo per strada e far partire immantinente un cartone sul suo setto nasale è un assioma insindacabile scritto nelle Leggi immanenti che regolano l'universo. Flanagan fa sempre la cosa sbagliata, e ride, come un ebete, un ottuso deficiente che neanche ha capito se la pipì va fatta dentro o fuori dal vaso. Nel far questo però, inspiegabilmente, ogni mammifero vivente dotato di vagina, nel raggio di 10 km, perde saliva al suo cospetto, ha gli occhi pallati e il battito accelerato. Il perché non interessa né a Cruise né a Roger Donaldson dietro la MdP, l'importante è far roteare quelle bottiglie come se non ci fosse un domani e far spalancare le mascelle al mondo a colpi di camicie vaporose so eighties e colonna sonora da sbombardo in dolbyrama. Abbondano scene del tutto inutili e pretestuose ma molto coreografiche, tipo le cavalcate sul bagnasciuga di Cruise e della Shue o gli amoreggiamenti dei medesimi sotto le cascate giamaicane Manco a dirlo, il film sbancò il botteghino, centuplicò le vendite di assorbenti intimi per perdite interne e generò un culto che perdura ancora oggi inalterato. Nei Cesaroni un tizio che ha trovato un impiego come barman diventa famoso per la sua acrobatica abilità di maneggiare cocktail; al massimo della esaltazione proclama: "Come Tom Cruise in Cocktail!". Difficile immaginare una nemesi più appropriata.