Sei Oscar nel 2003, compreso quello per miglior film, non accade spesso per un musical ma quando un musical di grossa produzione è messo in cantiere ed esce nelle sale di solito perlomeno nella cinquina ci finisce. Tra Grammy, Bafta ed altre decine di awards le candidature ed i premi raccolti da Chicago non si contano. Pare si trattasse di un progetto che aveva già in mente Bob Fosse ma che non riuscì a realizzare; in effetti se si pensa al suo cinema, ai suoi Cabaret o All That Jazz l'influenza c'è, si vede e si sente. Banalmente, anche solo la pettinatura di Catherine Zeta Jones sembra proprio quella della Minelli in Cabaret. A Broadway Chicago era rappresentato sul palco a partire dal '75 ma fu la riedizione del '96 che ebbe un certo successo, entrambe le versioni hanno finito con l'avere qualche influenza sul film diretto poi da Marshall. Lo sviluppo ricorda Condannatemi Se Vi Riesce (Roxie Hart, che è il nome del personaggio della Zellweger) di William A. Wellman del 1942, con Ginger Rogers come protagonista. Progetti simili non sono affatto una passeggiata da trasporre al cinema, che richiede un codice linguistico diverso e peculiare rispetto al teatro. Marshall ed il suo sceneggiatore Bill Condon trovano secondo me la chiave perfetta, mantenendo il piede in due staffe e dando a Chicago una dimensione ulteriore, quella allegorica. Il piano narrativo strettamente cronachistico è continuamente intervallato dalla rappresentazione dei medesimi fatti attraverso il ballo ed il canto, una sorta di doppia versione della storia. Questo dà una notevole profondità al film che ha un ritmo pazzesco, non annoia mai, neppure chi non nasce patito di musical, tip tap e anni '20.
Una bella mano la dà il cast, appropriato in maniera encomiabile. La Zeta Jones non aveva mai avuto esperienze musicali, eppure sia nel canto che nel ballo è particolarmente a suo agio. La Zellwegger aveva già cantato e ballato ed inoltre è talmente attrice "dentro" che si getta sui palchi di Chicago come un bulldozer. Richard Gere è un vecchio leone di esperienza e si cala come nulla fosse nei panni eticamente discutibili di un principe del foro avido e vanesio. Pazzesca davvero la prova di questo terzetto. La scena della conferenza stampa con Gere burattinaio tra le marionette è superlativa e da sola vale quasi l'intero film. Ma non è l'unico numero pregevole poiché la forza di Chicago è che davvero tutte le canzoni fanno centro, sia musicalmente che per coreografie, scenografie, costumi e luci, un lavoro ricco, opulento e di grandissimo gusto. L'aspetto interessante è che praticamente tutti i personaggi sono negativi, moralmente abietti e l'identificazione dello spettatore con essi è fortemente improbabile. Si assiste al declino del sistema giudiziario americano, la stampa è ridicolizzata, culturalmente quella società è allo stato infantile, l'omicidio è una soluzione che pavimenta la strada del successo e gli ammiccamenti erotici sono all'ordine del giorno. Tuttavia l'ambaradan ha un che di gioioso, festoso e trasmette grande allegria ed entusiasmo. Un rovesciamento di fronte non da poco, se ci si pensa bene. Quello di John C. Reilly è probabilmente l'unico personaggio non negativo, ma è comunque dipinto come un sempliciotto venuto al mondo apposta per essere ingannato ed usato come alibi, l'agnello sacrificale designato, quindi comunque tutto fuorché illuminato da una luce calda e positiva. Eccellente anche il suo numero "Mister Cellophane" (un uomo trasparente - leggi insulso - come il cellophane). A Chicago, insieme a Moulin Rouge! del 2001 è attribuito il merito di aver rispolverato il genere musical caduto un po' in disgrazia negli anni precedenti e che infatti conoscerà il fiorire di diversi titoli dopo .