Sono tre le sceneggiature scritte sin qui da Valentina Di Simone e dirette da Roger Fratter, con la stessa Di Simone tra le interpreti principali, quattro se si conta anche un cortometraggio. Blu38 credo sia la prima in ordine cronologico ad aver cementato il sodalizio artistico, sebbene Fratter avesse già diretto l'attrice sin da Donne Di Marmo Per Uomini Di Latta (2016), cinque lungometraggi assieme, oltre ai corti, formato che Fratter non ha abbandonato neppure dopo 30 titoli in carriera, fedele all'indole di cineasta indipendente e sperimentatore. Blu38 è un'opera tosta, 105 minuti chiusi dentro una scatola, il call center di un radio taxi, anzi un acquario, come neanche troppo metaforicamente viene detto nel film, e se si accetta quel filtro come lente attraverso cui osservare ciò che accade, l'ultimissima scena si rivela emblematica. Anita (Antonella Ponziani) fa il turno la notte di Natale, è una donna sofferente, in perenne tensione emotiva, sulle spine, ha un lato oscuro ma cerca di pensare solo al suo lavoro. Alla postazione di fronte siede Gea (Valentina Di Simone), che già fisicamente pare l'esatto contrario, una ragazza esuberante, che tiene molto al proprio aspetto e che sembra cercare la luce, contrariamente ad Anita. Dopo qualche telefonata di servizio Anita riceve quella concitata di una donna che cerca un taxi, si propone Tristano, il marito di Anita. La situazione però si ingarbuglia. La cliente ha qualcosa che non va e le informazioni di Tristano al riguardo si fanno via via sempre più sfuggenti. Anita non riesce a venirne a capo, si preoccupa e presto afferra che i due si conoscono e sta succedendo qualcosa di sporco. Il crescere della tensione purtroppo si intreccia con la natura della sofferenza interiore di Anita, un rapporto disastrato con il figlio Andrea, tossicodipendente e con manie autodistruttive. La nottata evolverà nel modo più catastrofico possibile, in un crescendo di claustrofobia, verità che si dischiuderanno come orchidee nere al cospetto di Anita; una sorta di discesa verso gli inferi che metterà in crisi la già pericolante condizione esistenziale della donna. Anche se, colpita e abbattuta da ogni dove, Anita cercherà con tutta la forza che le è rimasta in corpo, persino inconsapevolmente, di rimanere in piedi. E in qualche maniera Gea le sarà d'aiuto.
La De Simone deve amare molto le sfide anguste, in termini di spazio, poiché un po' come per La Cella (sempre scritto assieme a Giancarlo Mangone) anche qui tutto si gioca tra quattro mura, sostanzialmente con due personaggi ed un telefono. Una battaglia tanto per le attrici quanto per un regista il tenere viva l'attenzione dello spettatore, non farne morire l'interesse, rinnovare la storia minuto dopo minuto, inquadratura dopo inquadratura, avendo poco a disposizione, se non una buona sceneggiatura ed un cast tecnico ed artistico in grado di infondere profondità ai dialoghi, agli sguardi, alle espressioni, financo ai silenzi. Tutto ciò puntualmente si verifica in Blu38 (che è il nome del taxi di Tristano); un tempo il blu era il colore che identificava i film per adulti (poi diventati "a luci rosse"), pellicole morbose nelle quali poteva esserci sesso esplicito ma che comunque erano in grado di turbare lo spettatore, nel '69 Andy Warhol dirige il suo Blue Movie (il cui titolo derivò dal fatto che la luce naturale presente sul set, tutto di interni, aveva una dominante blu), nel '71 l'olandese Wim Verstappen gira Blue Movie e nel '78 Alberto Cavallone dirige il proprio Blue Movie. In questo caso il blu incornicia ogni fotogramma, è il colore del dolore e della minaccia che sembrano annunciarsi per Anita ad un ogni nuovo trillo del telefono. Bravissima la Ponziani a reggere lunghe inquadrature di dialoghi immaginari (poiché nella verità scenica lei recita con un telefono all'orecchio e qualcuno che fuori dal set metteva in sequenza le battute), una donna complessa, intensa, scioccata, drammatica ma sempre carica di grande umanità. Anita è come sull'orlo di un precipizio, costantemente sul punto di cadere, ma quell'ultimo passo non arriva mai. Ha subito la vita, eppure rimane in piedi come quel pugile che non vuole andare al tappeto nemmeno dopo cento riprese.
Interessante anche il personaggio di Gea, che cresce con il procedere della storia; inizialmente sembra una vanesia un po' frivola messa lì per bellezza, la nemesi di Anita, invece anche lei rivela poco a poco una propria interiorità, purtroppo sempre fondata sulla sofferenza (un certo passato), lo scalpello maledetto che inesorabile scolpisce la vita delle persone. La sua ossessione per il bagno, nel quale si lava continuamente le mani, ha qualcosa di freudiano e in conclusione ne capiremo il motivo. Gea è una crisalide che ha cambiato pelle e cerca di abbracciare in ogni modo il suo nuovo stadio esistenziale senza per questo trascurare Anita, che vede riflessa come in uno specchio, ne intuisce l'afflizione, il purgatorio, ne è compartecipe, rivive quel dolore sulla propria pelle e dunque tende spontaneamente la mano, comunque, anche quando viene rifiutata. Fratter ricorre a mille dettagli per tenere in piedi la storia e darle ritmo, visivi ma anche sonori, percettivi; impressionante la scena di quello che a tutti gli effetti sembra un attacco di panico di Anita, reso davvero in maniera molto convincente e autentica. Per altro il non vedere ma l'apprendere cosa sta accadendo solo mediante una voce, un racconto, e quindi mettendo in moto anche la propria fantasia (cosa che può largamente peggiorare la condizione di lucidità e razionalità), diventa un innesco tanto potente quanto pericoloso. Blu 38 è un film di cicatrici profonde che non si risanano, che non passano e che anzi lasciano posto ad altre cicatrici che si producono accanto alle precedenti, ma è anche un film di resilienza, di sopravvivenza, di compassione e di pietas umana che si compie con gesti trattenuti, sguardi trafugati e un agitato e convulso frapporsi di piccole cose contro l'entropia.