Ariaferma

Ariaferma
Ariaferma

Leonardo Di Costanzo è un regista (ma anche sceneggiatore e direttore della fotografia) con un curriculum relativamente contenuto da un punto di vista quantitativo ma che si è già fatto notare per storie gravide ed intense da un punto di vista sostanziale. I suoi film (L'Intervallo del 2012, L'Intrusa del 2017 e Ariaferma, sono tutti passati per dei festival cinematografici e/o si sono aggiudicati dei riconoscimenti). La lista dei premi ricevuti sin qui supera quella delle pellicole realizzate. Di Costanzo è un autore e la sua poetica finora è sempre passata attraverso Napoli e le problematicità legate a quella città e a quella terra (la stessa di Di Costanzo, nativo di Ischia). Ariaferma non fa eccezione. E' stato in sala ma in un periodo terribile nel quale la pandemia ha drammaticamente falsato il feedback del pubblico. Certo, di per sé la tematica del film non era facile da digerire, soprattutto considerando tutte le altre ansie del viver comune di quei giorni (che sono sempre questi giorni). Una storia impegnativa, dura, sofferta (seppur in modo carsico, attraverso sentimenti espressi in maniera algida e trattenuta, ma non per questo meno autentici) che ha il passo del thriller senza esserlo. Ariaferma è la fotografia - quasi una natura morta - di un vecchio penitenziario ottocentesco in attesa di dismissione. I detenuti sono stati già quasi tutti trasferiti, tranne dodici che per problemi organizzativi devono attendere ancora qualche giorno. Un drappello di guardie rimane a presidio in attesa del trasferimento, esattamente come i detenuti. Di Costanzo ci mostra la cronaca di quei giorni, quegli "ultimi" giorni, come fossero paradigmatici del tutto. Uno spaccato di vita (o, se preferite, di vita filtrata e surrogata dietro le sbarre) che si esplica attraverso silenzi, sguardi, spazi vuoti, dentro e fuori i corpi dei personaggi. Vite distrutte, vite segnate, vite in attesa o del tutto spente.

I due "generali" delle rispettive fazioni sono l'ispettore carcerario Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) e il camorrista Carmine Lagioia (Silvio Orlando); i due si studiano costantemente, si prendono le misure, si rispettano, provano ad incontrarsi a metà strada ma segnati da una diffidenza quasi incolmabile, ed in quel "quasi" si gioca tutta la partita. Alle loro spalle i rispettivi eserciti si agitano e si scompongono, a fatica tenuti a freno. Gargiulo deve continuamente mediare con Coletti (Fabrizio Ferracane), una guardia assai insofferente verso i detenuti, poco incline al compromesso e a concessioni di sorta; da parte sua, Lagioia deve fare i conti con animi più intemperanti (Bertoni/Antonio Buil Pueyo), anziani rimbambiti (Arzano/Nicola Sechi) ma a rischio di linciaggio dai compagni a causa del loro capo d'imputazione (la pedofilia) e con ragazzi perduti i quali, errori dopo errore, hanno completamente distrutto una vita ancora tutta da vivere (Fantaccini/Pietro Giuliano), senza contare gli accenti, i dialetti e le religioni diverse che sono costrette a convivere in quello spazio angusto e che spesso si alimentano di pregiudizio reciproco. Gargiulo e Lagioia camminano un centimetro alla volta, accorciando progressivamente la distanza che li separa. Ariaferma non ci dice se questo iato verrà mai del tutto colmato oppure no, ci mostra esclusivamente il cammino che i due compiono assieme, lento, barcollante, talvolta irto di inciampi e retrocessioni. Grazie alla bravura del cast quello che traspare è il profondo senso (e bisogno) di umanità dei personaggi, ancorché sconfitti, acciaccati o ribelli. Lagioia ad un certo punto dice che stare in carcere è cosa "tosta", riferendosi però anche alle guardie; Gargiulo lì per lì non sa o non vuole cogliere il riferimento e zittisce in malo modo il detenuto. Tuttavia la cifra di Ariaferma è in parte in quella piccola grande verità; i detenuti sono uomini spezzati, ma al contempo anche le guardie vivono una vita in tutto e per tutto simile a quella dei condannati, forse senza neppure rendersene conto.

Molto belli i raccordi che Di Costanzo frappone tra una sezione e l'altra del racconto, mostrando immagini ferme dell'architettura in disfacimento del carcere, del paesaggio gelido e quasi transilvanico che lo circonda e che contribuisce al senso di isolamento, abbandono e lontananza che avvertono gli stessi personaggi (in primis i detenuti ai quali è stato sospeso anche ogni colloquio con i familiari in attesa dell'imminente trasferimento). Immagini commentate da musiche (talvolta anche solo percussive) che trasmettono una certa inquietudine. Interessante il finale, volutamente irrisolto, perfettamente coerente con quanto visto sin lì, anche se da spettatore devo ammettere che mi ha generato qualche frustrazione. Razionalmente l'ho approvato ed apprezzato, emotivamente mi ha lasciato interrotto, equiparandomi in tutto e per tutto allo stato d'animo degli uomini del penitenziario di Mortana. Menzione speciale per Silvio Orlando, uno dei più grandi attori italiani viventi per quanto mi riguarda, uno dei pochissimi capaci di passare da ruoli comici a ruoli drammatici risultando estremamente efficace e credibile in entrambi. Ottimo anche Toni Servillo, perfetto per dare volto, tormento interiore e silenzi all'ispettore Gaetano Gargiulo.

Trailer ufficiale

Galleria Fotografica