Amarcord

Amarcord
Amarcord

Mentre lavorava a Il Casanova Fellini disse: "se uno si mette davanti a un quadro, può averne una fruizione completa ed ininterrotta. Se si mette davanti a un film no. Nel quadro sta dentro tutto, non è lo spettatore che guarda, è il film che si fa guardare dallo spettatore, secondo tempi e ritmi estranei e imposti a chi lo contempla. L'ideale sarebbe fare un film con una sola immagine, eternamente fissa e continuamente ricca di movimento" - questa sua ipotesi di lavoro, questa suggestione sulla realizzazione di un film è una descrizione molto calzante dell'impressione che si ricava vedendo Amarcord. I primi 20 minuti di pellicola sembrano di primo acchito molto confusionari, vuoi per il dialetto romagnolo non esattamente inclusivo, vuoi per i personaggi surreali, bizzarri e clowneschi, vuoi per un'azione concitata, senza fermezza, che affastella continuamente nuovi elementi, corpi, luoghi, suoni e movimento incessante. Piano piano poi la narrazione si incanala su un binario meno febbricitante, bene o male i personaggi li abbiamo conosciuti (anche se con un impatto di una certa violenza espressiva) e possiamo seguire le vicissitudini di ognuno di essi, che spesso e volentieri si intrecciano reciprocamente. Si ha rapidamente la sensazione che non si andrà a parare da nessuna parte, che non c'è un racconto in sviluppo ma piuttosto del situazionismo, quel momento in quel luogo. Un po' come quando si osserva una fotografia, magari un campo largo, un'immagine ampia e ricca di elementi e particolari sui quali ci si può soffermare per ricavare ed elaborare informazioni. Amarcord è quasi la messa in opera di quella concezione filmica che Fellini esplicita sul set di Casanova, lo stesso sul quale riceve la notizia dell'Oscar vinto per Amarcord (che neppure andrà a ritirare di persona).

Io mi ricordo (a m'arcord), è questa la scaturigine del film che si pone come punto di approdo di una ideale trilogia della memoria che passa da I Clowns (realizzato per la tv nel 1970) a Roma (1972) e poi termina a Rimini, che però nel film non è Rimini ma un borgo immaginario, una provincia piccola, circondata dalla campagna. Un'autobiografia non dichiarata, poiché Fellini ha sempre rifiutato (pubblicamente) di ascrivere a se stesso i fatti di Amarcord, eppure quelle sono esperienze di vita tangenti alla sua gioventù, tant'è che in molti hanno vista in Titta (Bruno Zanin) il ragazzo Fellini. Amarcord è una galleria di figurine che fanno tenerezza (tranne per la parentesi fascista), popolata dai ragazzotti sempre in cerca di scherzi e femmine (tra di loro c'è Alvaro Vitali detto Naso), di una famiglia sgangherata (con Pupella Maggio e Armando Brancia) dove ogni giorno è una battaglia, di uno zio (Ciccio Ingrassia) che sta in manicomio e non ha mai avuto una donna per sé, di una bella zitella (Magali Noël) che tutti vogliono ma nessuno si prende e che alla fine si sposerà con un carabiniere e lascerà il paese, di una tabaccaia dal seno enorme (Maria Antonietta Beluzzi) nel quale tutti vorrebbero sprofondare (e Titta ci riesce), di una povera spostata dalle manie ninfomani (Josiane Tanzilli). Negli anni '30, nel pieno del fascismo, un regime da barzelletta che vive e prospera perché gli italiani che lo subiscono sono da barzelletta, circostanze come una festa di paese nella quale si brucia il fantoccio dell'inverno per far posto alla primavera, il passaggio delle auto della Mille Miglia, quello del transatlantico Rex, il cinema del sabato sera o una semplice nevicata sono autentici eventi che segnano la memoria collettiva, che calamitano tutto il paese, che lasciano il segno.

Fellini si dedica con amore e con cura a pennellare poeticamente i suoi personaggi, ne ha compassione e comprensione umana, non c'è malizia, nonostante il film trasudi erotismo e qualche volta lo lasci affiorare a cielo aperto, come nella scena dell'incontro tra Titta e la tabaccaia, in quella dei ragazzi che smaniano alla vista delle donne che salgono sui sellini delle biciclette, in quella della loro masturbazione collettiva in auto sognando le donne, in quella del battesimo di Ninola, che diventa "Gradisca" perché nel concedersi ad un Principe (Marcello Di Falco) al Grand Hotel lo invita a servirsi proprio con quel congiuntivo (.... o imperativo). Si affoga nella nostalgia che è la cifra portante del film, tanto da trasformarne il titolo in una parola idiomatica della lingua italiana, oramai "amarcord" sta proprio per la rievocazione di qualcosa di antico e dolce, i bei tempi andati, quando tutto era semplice e appagante. Interessante notare che il ruolo di Gradisca fu pensato per Sandra Milo che lo rifiutò e passò in dote alla Fenech, ma pare che al momento di firmare il contratto Fellini la giudicò troppo magra e slanciata.... lo so, fa ridere oggi, ma Fellini aveva standard piuttosto generosi. Impossibile non citare le musiche di Nino Rota, pure quelle esondate oltre i fotogrammi e diventati una colonna sonora dell'Italia. Impossibile non constatare quanto il cinema felliniano si sia riverberato in diversi registi a venire; l'esempio più marchiano è senz'altro Sorrentino, quasi ossessionato dal tentativo di riprodurre a suo modo le visioni e le suggestioni di Fellini. Scendendo più in prosa e passando dai ristoranti stellati alle osterie, possiamo trovare anche Tinto Brass. Guardate Amarcord, guardate le scene di Gradisca, della tabaccaia, dei ragazzi infoiati, guardate i dettagli, i particolari, il trucco parossistico dei personaggi, il loro agire sconclusionato e sopra le righe, sentite il bisogno di toccare il corpo femminile (che ad esempio ha il nonno Giuseppe Ianigro), guardate la ridicolizzazione del fascismo inteso come becero regime autoritario, la vita del borgo di provincia... ritrovate tutto nei film di Brass, compreso un certo estro della messa in scena, sebbene Brass abbia tenacemente spinto sul versante erotico. Ebbene, la stessa grossolanità celebrata in Fellini ed etichettata come poetica e geniale, diventa volgare, sguaiata e moralmente abbietta in Brass. Beata critica.

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