
Sesto Bond movie che però marca una differenza sostanziale con i precedenti, manca 007, o meglio, manca quello che fino ad allora (1969) era identificato tout court con la spia di Ian Fleming, tant'è che nei manifesti di Si Vive Solo Due Volte (1967) c'era proprio scritto a caratteri cubitali che "James Bond era Sean Connery", a rimarcare che le altre erano solo imitazioni dell'originale. Stavolta invece è proprio l'originale a non essere più tale, perché Connery durante la lavorazione del precedente film in Giappone si stufa della pressione insopportabile di fans e stampa (si narra che non riuscisse neppure ad andare in bagno senza essere perseguitato) e stacca riottosamente la spina. Mentre lo scozzese rifiata, la Produzione di Broccoli e Saltzman ha la sua bella gatta da pelare a trovare un sostituto all'altezza. Progressivamente le varie caselle vengono completate, alla regia arriva l'ex montatore dei film di Bond, Peter Hunt (e al suo posto in cabina di montaggio ci sarà John Glen, che pure lui poi dirigerà alcuni capitoli della serie), per il ruolo del villain - Blofeld in persona - c'è Telly Savalas (che sostituisce Donald Pleasance), e come Bond girl principale (e praticamente unica stavolta) c'è Diana Rigg. Dopo aver provinato centinaia di candidati, aver pensato a Timothy Dalton e Roger Moore (entrambi futuri 007), la targhetta con scritto James Bond finisce sulla porta del camerino di George Lazenby, perfetto sconosciuto, fotomodello australiano, senza curriculum attoriale.
Le leggende sul come Lazenby si sia aggiudicato il ruolo si sprecano. In soldoni, tanta ambizione da parte sua e del suo manager, unite ad una certa disperazione di Broccoli e Saltzman, e alla scientifica imitazione di Connery in ogni suo tratto (sartoria, ristoranti abituali, eccetera), fa trovare Lazenby nel posto giusto al momento giusto. La prima scena provata convince relativamente i produttori. Il physique du role c'è ma la pronuncia australiana stona (e infatti verrà doppiato, a sua insaputa per altro), l'aria un po' spaesata non aiuta e la paura di prendere una cantonata si diffonde sul set. Quando Lazenby prova uno stunt di lotta e stende realmente lo sparring partner russo, non simulando affatto i cazzotti, serenità e soddisfazione inondando il set. Bingo, è l'uomo giusto! Non a caso le colluttazioni orchestrate da Hunt sono più crude del solito, molto efficaci e drammatiche senza gigioneggiare con spettacolarità ruffiana. Non è la sola virata autoriale del regista. Le diavolerie tecnologiche ed i gadget vengono brutalmente decurtati in favore di un maggior realismo; si opta per dare più spessore e profondità ai personaggi e la sceneggiatura si discosta il meno possibile dalle pagine originali di Fleming (l'opposto di quanto accaduto in Si Vive Solo Due Volte).
Lì per lì Lazenby convince pochissimo. In ogni intervista è martirizzato dal costante paragone con Connery (dal quale esce sistematicamente sconfitto). Lui fa di tutto per assomigliargli (persino nella camminata), ma la critica reagisce male e pregiudizialmente. Il pubblico non disdegna il film, gli incassi non sono faraonici ma alcuni 007 successivi (ad esempio con Roger Moore) faranno pure peggio. Eppure la MGM non è affatto contenta. Sul set Lazenby è stato un guascone immaturo ed irriverente e, come se non bastasse, arriva la dichiarazione del suo manager che l'attore non girerà un secondo film. Per tutta risposta la MGM si affretta ad appropriarsi del "gran rifiuto" e sparge la voce di essere stata lei a rinunciare alla presenza di Lazenby come nuovo e futuro 007. Il matrimonio si è già incrinato durante la luna di miele. Per anni si è dibattuto su come collocare questo film all'interno della saga. Chi lo ha definito il peggiore, chi addirittura il capolavoro incompreso, chi si è limitato a ritenerlo mediocre o appena sufficiente. Insomma opinioni varie. La mia, se ci tenete a saperla (e del resto se siete su Cineraglio immagino sia così), è moderatamente positiva. Il film è robusto (perlomeno assai migliore di Si Vive Solo Due Volte), la sceneggiatura c'è, di cose ne succedono ed è vero che stavolta c'è più polpa che gingilli luccicanti ed esplosivi, nondimento l'azione abbonda ed è assai ben coreografata. La Rigg è una signora Bond girl, attraente e sensuale, nonché una brava attrice. Le 12 coinquiline sono carta da parati, fanno numero, tipo conigliette di Playboy, ma sono del tutto irrilevanti, lo spettatore non ne mette a fuoco neanche una. Savalas ha il suo perché, tuttavia è un forte stravolgimento rispetto a Pleasance, a cominciare dal fisico; ok la pelata, ma lo sfregio all'occhio? Lois Maxwell/Moneypenny qui è bellissima; da segnalare anche la bandierina italiana piantata da Gabriele Ferzetti, untuoso e losco faccendiere padre della Rigg nel film.
Lazenby effettivamente pare spaesato, molla sganassoni e si rotola di qua e di là, ma pare arrivato 5 minuti prima sul set e arruolato quasi per caso. La sua virilità è troppo più rozza e grossolana rispetto a quella di Connery, altrettanto maschio alfa rude e villoso, ma dotato di un savoir faire innato ed innegabile. Lazenby non ce l'ha. Troppo squadrato e sommario. In tal senso la scena finale che chiude il film (atipica e inaspettata per i fans di 007) ha forti stonature, perché non solo è molto tirata per un personaggio come James Bond, ma questa sensazione si accentua esponenzialmente considerando chi veste i panni dell'agente segreto. Tutto il film però gioca su questo contrasto, volendo sfruttare il cambiamento portato da Lazenby; già dalla sequenza introduttiva al film, precedente ai titoli di testa (che stavolta si limitano a riciclare come un collage i vari episodi precedenti), Lazenby prende un due di picche proprio dalla Rigg e, guardando direttamente in camera, dice che non sarebbe mai potuto accadere "a quello precedente". Siamo ai limiti del metacinema, qualcosa di totalmente nuovo per 007, codificato ed irregimentato in tutti i suoi cliché e meccanismi consolidati ed inderogabili. Bond qui ammette di essere superstizioso mentre in un precedente capitolo il Bond di Connery aveva detto esattamente l'opposto. Per non parlare del rapporto a due ("solo" a due) tra Bond e la sua compagna, impensabile per lo sciupafemmine al servizio di sua Maestà. Clamoroso il finale, un vero unicum nella serie... anche se pare che per l'imminente nuovo Bond con cotoletta Craig - il numero 25 - ci si debba rassegnare a qualcosa di analogo, propedeutico al passaggio di testimone dell'attore ad un suo successore (finalmente!). Nel film appare la canzone "All The Time In The World", ultima interpretazione di Louis Armstrong, il cui titolo verrà ripreso per un successivo capitolo con Pierce Brosnan (1999) e che è anche la frase che chiude il film, pronunciata enfaticamente da Lazenby. Nel 1971 uscirà nelle sale il settimo film di Bond, Una Cascata Di Diamanti, con Sean Connery, tornato provvidenzialmente in sella, anche se per l'ultima volta prima dell'avvento di Roger Moore.