Le Belve

Le Belve
Le Belve

Le Belve (Savages) è un titolo importante nella filmografia di Stone perché era da un bel po' che non si vedeva un thriller/action girato nelle sue corde, l'ultimo era stato U Turn (1997). Questo nuovo film è spietato e crudo. Stone ha già dimostrato di saper abusare della violenza quando vuole; anzi, a tal proposito in una sua recente intervista ho letto che si diceva risentito del fatto che i suoi lavori venissero giudicati troppo violenti, poiché lui sostiene di non rappresentare la violenza ma le sue conseguenze. In altre parole, oltre ad avere un ruolo divulgativo e didattico, il suo cinema non sarebbe altro che la fotografia della realtà. Lana caprina a parte, penso che sia del tutto ovvio ritenere certi passaggi della produzione di Stone indubitabilmente violenti (come accade per Scorsese o Tarantino), il punto è naturalmente non isolarli, non soffermarsi unicamente su quelli, ma comprendere la completezza dell'opera (e del messaggio, laddove esiste).

Le Belve è innanzitutto il romanzo di Don Winslow, consulente anche per la sceneggiatura del film. La vicenda vede coinvolti due ragazzi produttori di marijuana di particolare qualità. Il cartello messicano della droga, guidato dalla zarina Salma Hayek, vuole metterci le mani sopra, e tra le due fazioni, dopo i primi iniziali scambi di cortesie, le cose si mettono male, tra rapine, omicidi, ricatti e rapimenti, fino alla risoluzione finale. Come spesso accade, in un film di Stone il contorno è assai più interessante della polpa, ovvero, più che la trama in sé, interessa come Stone gira il film, i suoi continui cambi di cromatismo, fotografia, il suo sperimentare con "trame" materiche della celluloide diverse, l'uso delle musiche, la definizione dei personaggi. Per Oliver Stone la tecnica registica diventa narrazione creativa e assume una importanza pari al plot. Questo contribuisce a non far annoiare mai durante la visione, anche considerando che Stone predilige mediamente tempi abbastanza lunghi (spesso e volentieri sopra le due ore). C'è sempre da sorprendersi nel tentativo di intuire perché quel passaggio dal colore al bianco e nero, quei riflessi di luce in primo piano, quell'effetto documentaristico, quale significato intendono portare?

Attori protagonisti emergenti (Taylor Kitsch, Aaron Johnson, Blake Lively), mentre sullo sfondo un cast di nomi più importanti fa da collante, Travolta, Benicio del Toro, la Hayek (imparruccata ma ugualmente di una bellezza e di un magnetismo sempre stratosferici). Particolarmente duri i ruoli di questi ultimi (ma, come detto, è l'intero film a non fare sconti). In un paio di occasioni la ferocia degli eventi mi ha messo a disagio (la scena della confessione e della punizione della presunta spia che ha tradito la Hayek è esemplare in tal senso), ma d'altra parte serve a rendere il clima tutt'altro che accomodante nel quale è immersa la storia. Stone è per palati forti, prendere o lasciare. Vedere la versione originale del film permette di apprezzare il forte accento messicano della Hayek, di Del Toro e dei vari scagnozzi, e la cosa buffa è che se poi si sente parlare la Hayek si realizza che il suo accento è proprio quello, un americano fortemente latino. La sua sanguinaria Reina Elena è un personaggio di grandissima statura, un carattere complesso, apparentemente impermeabile alle emozioni, ma in realtà profondamente umano; lo stesso dicasi per Travolta (un po' meno per Del Toro). Dal versante opposto invece partono i due protagonisti, morbidezza e umana comprensione che si irrigidisce strada facendo, perdendo la propria "innocenza" (anche se, sempre di spacciatori di droga stiamo parlando, sebbene sui generis).

Per una buona prima parte del film il rapporto con la droga è piuttosto borderline; Stone non è radicalmente avverso all'uso delle droghe leggere, anzi, quindi la visione che ne dà in effetti risulta quantomeno ambigua. Lo stesso dicasi per il rapporto a tre Kitsch/Johnson/Lively, molto hippie e molto poco conformista. Il tema della Santa Muerte viene toccato solo di striscio (suggerito dalle maschere e da un po' di scenografia), peccato, sarebbe stato interessante approfondire. Importante invece il topos del "selvaggio", colui che ritorna alla vita primitiva, condizione esistenziale che entra ed esce continuamente dallo schermo. Al botteghino Le Belve non è stato un successone; il rapporto di Stone con la critica ed il pubblico è controverso e ci vuole qualche anno prima che la valutazione sul suo lavoro sia più serena ed oggettiva. Personalmente ho molto apprezzato Le Belve (visto nella versione estesa di 141 minuti inedita al cinema), mi pare che Stone sappia ancora trasmettere tensione ai suoi spettatori, abbia ancora voglia di essere incazzato e provocatorio, e soprattutto sappia come si gira un film. Avrei magari evitato il doppio finale, dato che il primo (dagli accenti anche vagamente western) è ottimo, e non c'era alcun bisogno di fare un rewind per giocherellare di nuovo con gli stessi elementi per trarne un risultato diverso. Ma gli autori, sapete come sono....

Trailer ufficiale

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