Hammamet

Hammamet
Hammamet

Si è preso un gran bel rischio Amelio a scrivere e dirigere un film così, una patata bollente che in Italia potrebbe anche non venirgli perdonata. E infatti i commenti e le recensioni lette sul film, perlomeno quelli a caldo - poi ho smesso di leggerli, per non rovinarmi il gusto di una visione libera ed autonoma - insistevano perlopiù su un punto, la verifica spasmodica della condanna e/o della riabilitazione politica di Bettino Craxi. Alla fine, e nonostante tutto, quello era ciò che interessava di più a chi ha scritto del film. Il metro col quale misurare la bontà dell'opera, l'unico parametro preso in considerazione, Un approccio critico tutto politico, suddiviso tra colpevolisti e innocentisti. Così facendo si è perso completamente di vista il film, che è un'opera d'arte e non un pamphlet di scienze politiche. Amelio lo dice apertamente, i personaggi sono realmente esistiti ed a loro ci si è ispirati per narrare fatti romanzati e drammatizzati (come sempre del resto si fa al cinema ed in letteratura). Amelio racconta una vicenda, che non può in alcun modo prescindere dalla cronaca storica del nostro Paese, ma che al contempo non fa di quella la raison d'etre del suo concepimento. Io ad esempio vedendo Hammamet ho pensato fortissimamente a mio padre e mi sono trovato a guardare i fotogrammi con le lacrime agli occhi. Un'intensità pazzesca che evidentemente aveva molto altro da dire e da offrire allo spettatore oltre alle strette vicende giudiziarie di Craxi. Questo ponte emotivo è dovuto in particolar modo al rapporto che Amelio mette in scena tra Bettino (Pierfrancesco Favino) e sua figlia Anita (Livia Rossi), che sarebbe Stefania Craxi. Non è un caso che il nome venga cambiato, Amelio spersonalizza scientemente tutto. Bobo diventa "il figlio", il democristiano che va a trovare Craxi ad Hammamet diventa "il politico", la Gerini diventa "l'amante", sintesi complessiva di tutte le donne amate da Craxi fuori dal matrimonio. Inoltre vengono aggiunti personaggi del tutto fittizi, come l'amico politico (Giuseppe Cederna), suo figlio Fausto (Luca Filippi), tutti funzionali all'affresco inteso da Amelio. Craxi stesso è meramente "il Presidente".

Dopo un breve preambolo di Craxi addirittura bambino, assistiamo ad un passaggio veloce al celebre congresso milanese dell'89 (quello col mistico megaschermo triangolare), l'apice del craxismo, ma al contempo anche il momento nel quale ha inizio il disfacimento, preannunciato sibillinamente da Cederna. Poi il salto temporale ai giorni di Hammamet. Solo nel finale, un finale onirico e molto suggestivo (e per certi versi circolare), verremo trasportati altrove. Per la verità i finali sono due, c'è anche il dopo Craxi, una chiusa che personalmente non ho apprezzato granché e che avrei evitato, a mio gusto fa scadere un po' il film. Come è intuibile dunque, lo spettatore per circa 3/4 di pellicola segue questo protagonista della politica italiana (che fu) nella sua decadenza, nel suo dibattersi come la coda di uno scorpione già staccata dal corpo e destinata a inaridirsi e morire, pur tra mille livori e resistenze. Amelio non riporta Craxi come un santo al calvario, i tratti arroganti, supponenti, indomabili ed imprevedibili del suo carattere ci sono tutti, fanno parte del pacchetto. Clamorosa l'interpretazione di Favino, che riproduce in maniera impressionante voce e movenze (per l'aspetto fisico ci ha pensato la prostesi, ben 5 ore di trucco), davvero da applausi a scena aperta. Ma spendo volentieri una lancia anche a favore di Livia Rossi, attrice qui stupenda, capace di trasmettere emozioni ad ogni sguardo. Il suo rapporto - affatto semplice - col padre è davvero una delle chiavi del film, se non il momento più importante.

Lo stesso non posso dire del personaggio di Fausto, troppo estraneo alla vicenda, che suona un po' come infilato a forza in sceneggiatura, e per altro recitato con sfumature troppo caricaturali. Forse così voleva Amelio, ma rimane il fatto che Luca Filippi con i suoi silenzi, i suoi sguardi persi nel vuoto, il suo tono di voce mellifluo a cantilena pareva uscito da un b-movie di Lamberto Bava, tipo il ragazzino paraplegico de Le Foto Di Gioia (Karl Zinny), più che da un film d'autore dello spessore di quello di Amelio. Capisco che il modo di porsi problematico debba fungere da contraltare a Craxi, una sorta di specchio al negativo dentro il quale il leader si vede riflesso in tutte le sue zone d'ombra ed i suoi risvolti negativi, ma questo rimane un concetto in astratto, che si cala malamente e si traduce zoppicando nella interpretazione di Filippi. Il finale del film peggiora le cosa dando un accento davvero stonato a tutto il racconto. Peccato perché i minuti immediatamente precedenti, che vedono Craxi affrontare un viaggio metafisico molto potente, sarebbero stati l'epilogo perfetto, assai originale e sui generis. Non state col bilancino a misurare cosa sia vero e cosa no, cosa sia effettivamente andato così e cosa no, cosa sia giusto e cosa sbagliato, dove troppo e dove troppo poco, il film non è quello e non vuole essere quello. E' un disegno, un quadro, una veduta, una visione complessa e non semplificabile, tutta da ascrivere ad Amelio, all'autore, realizzata col contributo ineludibile del suo prezioso cast. Ottimi Carpentieri (il politico democristiano), la Gerini (l'amante), Antoniutti (il padre di Craxi), Vincenzo Cederna (il dirigente PSI amico di Craxi), un po' evanescente la moglie, Silvia Cohen, ritratta come una svampita che guarda sempre la tv e blatera sciocchezzuole da salottino borghese. Qualcuno ha voluto evocare paralleli forzati con Sorrentino, con il suo divo andreottiano; ecco, francamente Amelio è di un'altra pasta, corre a cento all'ora rispetto al teatrino glamour autocompiaciuto e "weirdo" di Sorrentino, evitiamo simili paragoni per piacere. Sorrentino non affonda ma il coltello perché non ha niente da dire (se non bearsi della composizione estetica del suo fotogramma), Amelio ha ben altro da dire, siamo agli antipodi.

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