Donatella

Donatella
Donatella

Attorno alla metà degli anni '50 Elsa Martinelli diventava Donatella e poi Manuela (il film di Guy Hamilton), evidentemente aveva la faccia giusta per delle donne che dovevano essere raccontate al cinema. Monicelli la dirige nel film del 1956, che le frutta l'Orso d'Oro come miglior attrice al Festival di Berlino, permettendole di essere apprezzata anche come attrice talentuosa oltre che come bella ragazza con il corpo da modella (cosa che in effetti era). Una bellezza la sua per altro particolare, non classica e stereotipata, bensì spigolosa, asimmetrica, un po' picassiana, e forse anche per questo sottilmente magnetica e fascinosa. Donatella invece è un film assolutamente "classico", secondo il canovaccio del primo dopoguerra, ovvero storie edificanti, dell'Italia un po' stracciona che cerca di rimettersi in piedi, che punta sui giovani volitivi (con alle spalle genitori magari buffi e goffi ma di sani valori), col dialetto sempre in primo piano, ed una interazione con lo straniero (segnatamente l'americano, una figura mitologica) che ha i connotati di chi, minuscolo, sta al cospetto dei giganti. Donatella (Elsa Martinelli) è infatti la figlia coscienziosa di un rilegatore di libri (Aldo Fabrizi) di un quartiere popolare di Roma. E' fidanzata con Guido (Walter Chiari), un benzinaio superficialotto, ma soprattutto non trova lavoro e pare bloccata in quello che una volta si sarebbe chiamato "l'ascensore sociale". E' il caso ad interrompere un'esistenza che non vuole trovare vie d'uscita da una sorta di determinismo di classe. Il ritrovamento della borsa di una ricca americana e la conseguente restituzione alla proprietaria fanno si che Donatella venga "ricompensata", con un incarico, diventare la persona di fiducia della donna durante la sua prolungata assenza di settimane da Roma, per motivi di affari. Donatella prende così possesso di una casa fiabesca nella Roma bene e comincia a vivere la vita della "signora", entrando in un mondo oltre ogni sua più rosea aspettativa (e possibilità). Conoscerà Maurizio (Gabriele Ferzetti), uomo di tutt'altra tempra e lignaggio del suo Guido, e finirà con l'innamorarsene, naturalmente ricambiata.

Donatella è Cenerentola, che a mezzanotte torna nella catapecchia paterna, ma durante il giorno indossa vestiti firmati di sarte à la page, mangia cibo francese il cui nome non sa tradurre, fa il bagno caldo in vasche hollywoodiane e si annoia a morte perché la vita delle signore è fatta di troppo tempo per troppe poche cose da fare. Donatella è anche un po' l'Italia (neorealista), con le sue ingenuità, le sue aspirazioni, le sue contraddizioni, la sua purezza, la sua onestà di fondo. Certo, una visione alquanto edulcorata ed autoindulgente dell'Italia nel 1956. Si stenta a riconoscere il Monicelli graffiante e controcorrente che proprio nel volgere di pochissimi anni sarebbe arrivato con I Soliti Ignori o La Grande Guerra. Donatella è senza macchia dall'inizio alla fine, è un'eroina di umili origini e, sebbene ciò che ottiene arrivi più per accidente che per merito, la sensazione è quella che il cielo abbia avuto un occhio di riguardo per una ragazza esemplare. Il tema dell'emancipazione femminile rimane un po' a metà, "capita", per mezzo del ritrovamento di un oggetto smarrito; praticamente un biglietto della lotteria, la schedina vincente del Totocalcio. Il suo contorno familiare è macchiettistico, soprattutto nei panni dello zio "di latte" Virgilio Riento. Chiari ha una parte stupidina, Ferzetti è un titano dell'antica Grecia, charmant, benestante, saggio, posato, moralmente integerrimo, voce baritonale, praticamente una figura bidimensionale. Per scovare un po' di sensualità meno didascalica bisogna aspettare la comparsa di Abbe Lane (che interpreta se stessa), cantante/ballerina di un night frequentato dall'upper class. Con la sua chioma rossa e provocante alla Rita Hayworth, le sue scollature generose, il suo accento amabilmente straniero, le sue movenze un po' legnose, scomposte e leggermente volgari, tanto pin up anni '50, il tono del film perlomeno in quei minuti cambia sensibilmente, ed appare perfettamente chiaro perché il sempliciotto Walter Chiari la ammiri inebetito con la macella poggiata sul pavimento.

Tutto è bene quel che deve finire bene, e l'epilogo della storia è di un lieto che più lieto non potrebbe essere. Donatella e Maurizio si amano nonostante la differenza di classe sociale dalla quale provengono, Maurizio si ribella alle malelingue dei ricconi a lui pari che maliziosamente additavano la popolana come una marpiona che voleva accalappiarsi un buon partito, lei si aggiudica Maurizio mantenendo intatto il suo candore e la sua dirittura morale, arrivando persino a rifiutarlo, Guido benedice il vero amore lasciando andare la fidanzata, in un gesto di altruismo disinteressato. Il buon padre di famiglia può bearsi della limpidità della figlia. Non manca tutto il corredo di doti da preservare fino al matrimonio, di femmine che devono rimanere a casa senza lavorare ed emanciparsi per non rischiare di perdere la propria femminilità (leggi e traduci: subalternità all'uomo), eccetera. Un catalogo democristiano di valori  arcaici e preistorici. Poveri ma belli, sono gli italiani del 1956. E però mentirei se dicessi che arrivati i titoli di coda una certa nostalgia canaglia non mi abbia invaso muscoli, ossa ed epidermide. Stupenda la Roma da cartolina che continuamente incornicia il racconto, fotografata da un certo Tonino Delli Colli.

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